Non dimenticare la storia


Als die Nazis die Kommunisten holten, habe ich geschwiegen;
ich war ja kein Kommunist.
Als sie die Sozialdemokraten einsperrten, habe ich geschwiegen;

ich war ja kein Sozialdemokrat.
Als sie die Gewerkschafter holten, habe ich nicht protestiert;

ich war ja kein Gewerkschafter.
Als sie die Juden holten, habe ich nicht protestiert;

ich war ja kein Jude.
Als sie mich holten,
gab es keinen mehr, der protestierte.


Quando i nazisti vennero per i comunisti, io restai in silenzio;
non ero comunista.
Quando rinchiusero i socialdemocratici, rimasi in silenzio;
non ero un socialdemocratico.
Quando vennero per i sindacalisti, io non feci sentire la mia voce;
non ero un sindacalista.
Quando vennero per gli ebrei, non protestai;
non ero un ebreo.
Quando vennero per me, non era più rimasto nessuno che potesse far sentire la mia voce.

(Emil Gustav Friedrich Martin Niemöller; Lippstadt, 14 gennaio 1892 – Wiesbaden, 6 marzo 1984)



S-21 - Nella prigione di Pol Pot

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S-21; un romanzo storico, una narrazione viva e potente che porta il lettore in una struttura detentiva istituita dal regime degli Khmer Rossi, una prigione da cui pochi sono tornati, seppur segnati nel corpo e nello spirito, vivi.

IL CUSTODE DI TERRA SANTA - un colloquio con padre Pierbattista Pizzaballa

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FESTIVAL FRANCESCANO 2014 - Rimini, piazza Tre Martiri,SABATO 27 SETTEMBRE - ORE 15.00 Presentazione del libro Il Custode di Terra Santa

INDOCINA - Un libro, una saggio, una guida per chi vuole approfondire

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Italia-Corea del Nord: 0-1 (II)

Una leggenda coreana narra la storia di Chollima, un mitico cavallo alato capace di coprire ogni giorno mille ri (circa 400 km) alla continua ricerca di un cavaliere che fosse in grado di montarlo. Il racconto simbolizza l’indomito spirito dei coreani e venne utilizzato da Kim Il Sung negli anni Sessanta per incitare alla ricostruzione socialista una nazione che era da poco uscita da una guerra fratricida devastante sia moralmente che economicamente. Ma Chollima servì anche da metafora al “Grande Leader” nel 1966 per salutare la nazionale di calcio della Corea del Nord in partenza per i mondiali d’Inghilterra: non importava tanto il risultato, disse, quanto lo slancio e lo sforzo espresso sul campo di fronte ad una platea internazionale. Per la squadra asiatica, essere ammessa alla fase finale della massima competizione calcistica rappresentava già un enorme successo: nei precedenti due anni i giocatori dopo essere stati addestrati alla rigida disciplina militare furono spediti ad allenarsi e giocare in Unione Sovietica, che all’epoca era una delle migliori fucine sportive al mondo. La Guerra di Corea, terminata appena 13 anni prima, lasciava però i suoi strascichi: il non riconoscimento diplomatico di Pyongyang da parte delle nazioni occidentali rischiava di far morire i sogni di una partecipazione ai mondiali ancor prima che questi potessero nascere. Per disputare la partita decisiva delle qualificazioni con l’Australia si dovette scegliere un campo neutro. Il re cambogiano Sihanouk, intimo amico di Kim Il Sung, mise a disposizione lo stadio di Phnom Penh, dove si svolsero le due partite di qualificazione, vinte entrambe dai nordcoreani per 6-1 e 3-1. Per garantire la massima imparzialità, l’eccentrico sovrano ordinò che i 40.000 spettatori presenti alle partite tifassero equamente per le due squadre: 20.000 per l’Australia e 20.000 per la Corea del Nord. L’inattesa qualificazione, gettò nello sconforto gli organizzatori britannici, i quali considerarono anche la possibilità di negare il visto ai calciatori cittadini di una nazione contro cui avevano combattuto una guerra sotto la bandiera dell’ONU. Alla fine, nonostante le energiche proteste dell’ambasciatore sudcoreano a Londra, il buon senso prevalse, ma al governo di Pyongyang fu imposto di presentare la sua nazionale con il nome esonimo (Nord Corea) cancellando ogni riferimento al nome ufficiale (Repubblica Democratica Popolare di Corea), mentre sui campi fu vietata l’esecuzione dell’inno nazionale. La partecipazione della squadra avrebbe dovuto essere solo una fugace apparizione nell’Olimpo del calcio internazionale: con avversari come l’URSS del portiere-saracinesca Yashin, il Cile reduce da un terzo posto nei Campionati del 1962 e, soprattutto, un’Italia che nelle partite di qualificazione aveva umiliato a suon di gol le migliori nazionali, i nordcoreani non avrebbero superato il primo turno. Forse per la naturale simpatia che emanano le squadre più deboli o per la curiosità che suscitavano questi sconosciuti “communists” o ancora per solidarietà di classe, nella cittadina operaia di Middlesbrough dove furono alloggiati i nordcoreani, si scatenò un sincero sostegno alla squadra. Il 12 luglio, allo stadio Ayresome Park, il debutto non fu incoraggiante: 3-0 per l’Unione Sovietica. Andò meglio il 15 luglio contro il Cile: al gol su rigore di Marcos, rispose Pak Seung-jin a due minuti dalla fine, mandando in delirio i 16.000 spettatori inglesi. Il 19 luglio venne il turno dell’Italia, testa di serie del girone e favorita dai pronostici. E fu l’apoteosi. Al 41° Pak Doo-ik infila Alberatosi, ammutolendo 50 milioni di italiani e scatenando un vero e proprio “caso Corea”. La squadra di illustri sconosciuti che «a vederla giocare sembra una comica di Ridolini», come poco prudentemente la definì il vice CT Ferruccio Valcareggi, mandò a casa i baldanzosi e strapagati Azzurri. A nulla servì scegliere segretamente l’aeroporto di arrivo in Italia: a Genova i tifosi inferociti accolsero la nazionale a pomodorate. E invece Middlesbrough tutta festeggiò e le bandiere nordcoreane fecero la loro apparizione per le vie cittadine. A Liverpool, dove i nordcoreani alloggiarono nel seminario cattolico già prenotato dall’Italia, li seguirono 3.000 inglesi di Middlesbrough a sostenerli contro il Portogallo di Eusebio, il 23 luglio. Sembrava che il calcio alla Chollima dovesse trionfare ancora: dopo 22 minuti i coreani conducevano per 3-0, ma anziché difendere il risultato acquisito, continuarono ad attaccare. E fu Eusebio a infilarli quattro volte. Il risultato finale, 5-3 per il Portogallo, mandò a casa i “Ridolini”, ma la leggenda era oramai nata, infarcita da un “mistero” che perdurò per 35 anni: che fine fecero i “magnifici undici”? Un libro, L’ultimo Gulag, scritto dal francese Pierre Rigoulot ha tentato di dare una risposta: tutti i giocatori furono spediti nei campi di prigionia per il “comportamento capitalista” tenuto alla fine della partita contro l’Italia. Esaltati dalla vittoria, secondo Rigoulot, i calciatori gozzovigliarono a alcool e donne tutta notte. L’unico che si salvò fu Pak Doo-ik, che preferì riposare. Ma questa versione è oggi confutata da un documentario redatto da Daniel Gordon, direttore della VeryMuchSo Productions e Nick Bonner, i quali dal 20 al 30 ottobre 2001 sono stati i primi giornalisti occidentali ad ottenere il permesso di intervistare in Corea del Nord sette degli undici giocatori della nazionale di calcio del 1966, tra cui Pak Doo-ik. La partita della loro vita, questo il titolo del cortometraggio, narra la storia del leggendario team e dei suoi rappresentanti, molti dei quali ancora oggi impegnati nel mondo calcistico e la cui unica agevolazione garantita dalla fama acquisita è stata l’assegnazione di un piccolo appartamento a Pyongyang. L’exploit del 1966 non si è più ripetuto e la Corea del Nord non ha raggiunto alcun traguardo calcistico internazionale di rilievo. Anche i tentativi di coinvolgere la federazione calcistica nordcoreana nell’organizzazione dei prossimi campionati mondiali (tentativi, per la verità, ben poco incisivi per non suscitare rimostranze da parte degli USA), sono caduti nel vuoto. Ma nella memoria di ogni nordcoreano che alle 4 del mattino del 20 luglio 1966 ascoltava per radio la cronaca della partita Italia-Corea del Nord rimarranno sempre impresse le ultime parole del commentatore a Middlesbrough: «Corea, mi senti? Abbiamo vinto!».

© Piergiorgio Pescali

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