Non dimenticare la storia


Als die Nazis die Kommunisten holten, habe ich geschwiegen;
ich war ja kein Kommunist.
Als sie die Sozialdemokraten einsperrten, habe ich geschwiegen;

ich war ja kein Sozialdemokrat.
Als sie die Gewerkschafter holten, habe ich nicht protestiert;

ich war ja kein Gewerkschafter.
Als sie die Juden holten, habe ich nicht protestiert;

ich war ja kein Jude.
Als sie mich holten,
gab es keinen mehr, der protestierte.


Quando i nazisti vennero per i comunisti, io restai in silenzio;
non ero comunista.
Quando rinchiusero i socialdemocratici, rimasi in silenzio;
non ero un socialdemocratico.
Quando vennero per i sindacalisti, io non feci sentire la mia voce;
non ero un sindacalista.
Quando vennero per gli ebrei, non protestai;
non ero un ebreo.
Quando vennero per me, non era più rimasto nessuno che potesse far sentire la mia voce.

(Emil Gustav Friedrich Martin Niemöller; Lippstadt, 14 gennaio 1892 – Wiesbaden, 6 marzo 1984)



S-21 - Nella prigione di Pol Pot

S-21 - Nella prigione di Pol Pot
S-21; un romanzo storico, una narrazione viva e potente che porta il lettore in una struttura detentiva istituita dal regime degli Khmer Rossi, una prigione da cui pochi sono tornati, seppur segnati nel corpo e nello spirito, vivi.

IL CUSTODE DI TERRA SANTA - un colloquio con padre Pierbattista Pizzaballa

IL CUSTODE DI TERRA SANTA - un colloquio con padre Pierbattista Pizzaballa
FESTIVAL FRANCESCANO 2014 - Rimini, piazza Tre Martiri,SABATO 27 SETTEMBRE - ORE 15.00 Presentazione del libro Il Custode di Terra Santa

INDOCINA - Un libro, una saggio, una guida per chi vuole approfondire

INDOCINA - Un libro, una saggio, una guida per chi vuole approfondire
Per ordinarne una copia: 3394551575 oppure yasuko@alice.it
© COPYRIGHT Piergiorgio Pescali - E' vietata la riproduzione anche parziale senza il consenso dell'autore

Reportage (Maggio 2008)

La rivolta dei monaci birmani è ormai dimenticata. Sepolta. L’opinione pubblica, che per una decina di giorni si era infatuata della lotta delle toghe arancioni, ha riposto nel cassetto le magliette rosse scordandosi del Paese asiatico per appassionarsi della nuova ondata mediatica tibetana. Ma ci ha pensato il tifone Nargis a riproporre, in modo altrettanto drammatico, la situazione del Paese al centro dell’attenzione. E’ la natura che, con drammatica attualità, ci ha ricordato che in Myanmar si continua a morire. Come prima. Anzi, con la consapevolezza che, dopo i primi giorni di sconcerto per quanto avvenuto nel Paese, il mondo ora guarda ancora altrove, permettendo ai generali di completare il lavoro di scrematura di “elementi sovversivi” iniziato nel 2007. «Avevamo creduto nell’Europa, negli Stati Uniti. Ci sentivamo sostenuti, eravamo scesi in piazza perché sapevamo di avere l’appoggio di milioni di persone. Ci siamo sbagliati. Ora siamo soli. E i militari ci stanno decimando.» E’ questo il drammatico lamento di Aung Moe, monaco della All Burma Young Monks Union, la principale associazione che ha organizzato le manifestazioni lo scorso autunno.
E Than Shein, suo compagno, rincara la dose: «Era già accaduto nel 1988, è successo di nuovo nel 2007. Ora sappiamo che se vogliamo riportare la democrazia nel nostro paese, dobbiamo farlo da soli, senza sperare nell’aiuto esterno.» Le illusioni sono finite. L’abbandono è totale. Persino i giornalisti, che durante lo scorso ottobre facevano a gara per accaparrarsi qualche dichiarazione, ora si disinteressano delle retate notturne, degli interrogatori, dei trasferimenti forzati ancora in atto. I turisti, tornati a frotte dopo l’iniziale titubanza dei Tour Operator, vengono accolti nella nuovissima ala dell’aeroporto di Yangon costruita grazie alle joint ventures con compagnie asiatiche. Abbagliati dal luccichio della Shwedagon Pagoda, non si accorgono di come sia cambiata la città e la nazione. Migliaia di monaci sono stati deportati nei villaggi di campagna, altri sono fuggiti prima che la polizia o il Tatmadaw (le Forze Armate birmane) irrompessero nei monasteri, svuotando Yangon, Mandalay, Mawalamyine, Mytkyina della loro presenza. «Nelle carceri birmane sono detenuti 1873 prigionieri politici, di cui 174 dei quali sono monaci» mi informa un monaco molto vicino a U Gambira, il leader della All Burma Young Monks Union arrestato immediatamente dopo la repressione. Poi mi dà la lista nominativa completa dei 496 prigionieri ancora incarcerati a seguito delle manifestazioni del 2007. «Da gennaio a marzo 2008 sono state arrestate altre 52 persone. I rastrellamenti non sono terminati. Siamo ancora tutti in pericolo» aggiunge prima di separaci.
A Mawalamyine, sulla costa orientale, i monaci non sono ancora tornati dopo che il governo locale ha ordinato l’evacuazione dei monasteri prevedendo una sollevazione simile a quella delle città delle regioni centrali. A Sittwe, dove ad ottobre migliaia di religiosi avevano sfilato per le vie della cittadina, ho incontrato una decina di monaci in tutto: «Tutti trasferiti. I pochi rimasti preferiscono restare nei monasteri.» mi dice padre Robert, un giovanissimo prete cattolico anche lui abbastanza agitato mentre mi parla. Le spie del governo sono dappertutto e nessuno si sente oramai più al sicuro, neppure tra le mura di un luogo religioso come una chiesa o un tempio. I militari hanno imparato bene la lezione e hanno sguinzagliato informatori per tutto il Paese. Per un birmano, parlare con uno straniero significa ricevere la visita della polizia, essere interrogato e successivamente sorvegliato. E’ quindi comprensibile la difficoltà che incontro nel fissare un colloquio con qualsiasi membro dell’opposizione. Zagana, un famoso commediante birmano, rimanda una decina di appuntamenti, mentre un altro membro dell’NLD, Thet Zin Myint, accetta di incontrarmi solo a Bangkok. «Il movimento democratico si deve riorganizzare» mi dice, «abbiamo bisogno di appoggi, di aiuti e non solo finanziari. Abbiamo commesso degli errori di valutazione. La giunta è più forte di quanto pensassimo e l’opposizione ha mostrato tutte le sue crepe non capendo sin dall’inizio la portata delle manifestazioni». Ma non sono solo gli errori di valutazione a permettere ai generali di rimanere al potere. E’ l’idea stessa di un Paese democratico e pluralista a non reggere: sono ormai in tanti, forse troppi, ad avere ben chiaro che senza un esercito forte e determinato, la nazione si disintegrerebbe. «Non siamo ancora pronti per la democrazia» afferma rammaricato l’arcivescovo di Yangon, Mons. Charles Bo. Le spinte indipendentiste della periferia etnica non si sono mai sopite e gli accordi di pace stipulati da Khin Nyunt, con la garanzia di un’ampia autonomia ai singoli stati della federazione, sono perennemente a rischio di rottura. «Ero in Europa in procinto di partire per la Birmania quando è iniziata la repressione del governo» spiega Jamaree Chiengthong, professore di Storia Birmana all’Università di Chiang Mai. «Quello che più mi ha colpito è la totale mancanza di conoscenza della situazione birmana da parte dei politici e delle associazioni. Chiedevano tutti l’immediata uscita di scena dei militari, la consegna dei poteri ad Aung San Suu Kyi. Nessuno si era probabilmente reso conto che il 30% della popolazione non è di etnia bamar e che non accetterebbe comunque un governo democratico, anche guidato da un civile. L’uscita di scena dei militari creerebbe uno stato di guerra civile incontrollabile». La stessa Aung San Suu Kyi, del resto, ha più volte ribadito che i militari sono indispensabili per la nazione. «Ho conosciuto la Signora ed anche suo marito, ora morto. Mi ha colpito la sua profonda conoscenza dei problemi del Paese nonostante sia agli arresti domiciliari da anni. Anche lei ha ribadito che senza i militari non è possibile tenere unita la nazione» conferma ancora Mons. Bo. Ed allo stesso modo Aung San Suu Kyi ha avvertito che, nel caso fosse salita al governo, non avrebbe accettato che i membri del suo partito, la Lega Nazionale per la Democrazia (LND), usassero la sua amicizia e la sua fiducia per fare carriera e arricchirsi. «Allora avrà un gran bel lavoro di pulitura da fare» ironizza Po Than Jaung, portavoce del clandestino Partito Comunista Birmano, «L’NLD si è troppo distaccato dal popolo. La tardiva scesa in campo durante le manifestazioni del 2007 hanno dimostrato che si sta creando una frattura tra la leadership e la base che potrebbe diventare insanabile. Pensiamo che comincino già a sentire profumo di potere. Le fazioni stanno già litigando su come gestirlo». Dalla parte etnica la sfiducia verso la Lega non è meno pronunciata. A Dawei, a Thaton e fin giù a Myeik, nello stato Mon, sono in molti a manifestare il loro disappunto per l’accordo che l’esercito Karen ha stipulato con il Tatmadaw: «Non siamo birmani, non lo saremo mai. Vogliamo un nostro stato e lotteremo per averlo. Rispettiamo Aung San Suu Kyi, ma non ci fidiamo delle persone che la circondano. Per noi non fa molta differenza se al governo c’è Than Shwe o Aung San Suu Kyi. Continueremo a combattere per la nostra indipendenza». Sono parole dure che però hanno echi anche al nord, nello stato Shan e in quello Kachin, senza contare che ad ovest, nell’Arakan, i musulmani stanno riorganizzando il vecchio movimento separatista. Non è una sorpresa che le manifestazioni dello scorso anno hanno avuto ben poco seguito nelle regioni etniche. Solo nelle principali città, come Myitkyina e Sittwe, dove il governo aveva effettuato massicci trasferimenti di bamar, si sono registrate sfilate. La repressione del governo non ha però fermato il lavoro clandestino dei movimenti d’opposizione. Nella limitatissima libertà di riunione e di movimento che viene loro concessa, le diverse organizzazioni stanno già valutando di ritornare in piazza. Le manifestazioni, dapprima previste per l’inizio di aprile, sono state rimandate per evitare il sovrapporsi con quelle dei monaci tibetani e per valutare i risultati del referendum sulla nuova bozza costituzionale indetto dalla Giunta militare. «Siamo ottimisti» afferma uno studente della Rangoon University incontrato in un internet point mentre chatta con alcuni compagni sul campionato di calcio inglese; «Della triade al vertice nella giunta, Soe Win è già morto, mentre Than Shwe non vivrà ancora a lungo. Penso che i militari più moderati aspettino la morte di Tha Shwe per varare le riforme e iniziare la democratizzazione della Birmania». Pochi, però, sono ottimisti. Dietro a Than Shwe ci sono altri generali altrettanto decisi a mantenere le redini di una gestione economica che garantisce loro livelli di vita da miliardari. Poco importa se la maggioranza della popolazione vive al limite della soglia della povertà, se non ci sono le strutture per garantire il diritto allo studio e alla sanità. La corruzione è capillarmente penetrata sino ai livelli più bassi dell’amministrazione. Come a Pathein, nel delta dell’Irrawaddy, dove la Caritas è costretta ad “invogliare” i responsabili amministrativi a concedere il permesso di mantenere diversi progetti di sviluppo nelle aree colpite dallo tsunami del 2004 e dal tifone Nargis di maggio. «E’ assurdo, ma è così: dobbiamo pagare il governo per aiutare i suoi stessi cittadini abbandonati da chi per primo dovrebbe soccorrerli» mi dice un prete di Pathein. La stessa situazione la riscontro in altre regioni del Myanmar, dove diverse ONG hanno avviato progetti di sviluppo umanitario che, senza il necessario “lubrificante” rischiano di ingripparsi. «Non dimenticateci» è il grido che viene lanciato dal Myanmar. E’ l’unica cosa che chiedono. Non dimenticarli.

© Piergiorgio Pescali

Nessun commento: