Pathein è la principale città della regione del delta dell’Ayerwaddy, dove nei giorni scorsi si è abbattuto il tifone Nargis. Poche settimane fa l’avevo raggiunta da Yangon dopo una traversata di 15 ore a bordo di un traghetto pieno all’inverosimile. Il paesaggio scorreva lento come una sequela di fotogrammi tratti da un film di Jean-Jacques Annaud; accovacciato sul tetto ammiravo i pescatori che lanciavano le proprie reti nelle acque torbide del fiume. Avrei dovuto continuare il tragitto a bordo di un jeep per visitare alcuni programmi di sviluppo sociale della Karuna, la Caritas locale, l’unica agenzia umanitaria che aveva il permesso di operare nella regione. Arrivati a Labutta un posto di blocco di militari mi impedì di proseguire oltre. «La zona è stata colpita dallo tsunami nel 2004 e i militari non hanno piacere che gli stranieri ficchino il naso in affari che il governo considera di competenza esclusivamente interna» mi disse un operatore locale. Poco importava se l’intero progetto fosse stato voluto, elaborato, finanziato dall’organizzazione ecclesiastica. Visitammo comunque altri
programmi nella zona: cliniche, dispensari, scuole, lebbrosari. Poca cosa, piccoli interventi di fronte all’immenso bisogno della popolazione, abbandonata dai suoi stessi governanti. «Potremmo fare molto di più» mi disse poi l’arcivescovo di Yangon, mons. Charles Bo, «Abbiamo le competenze tecniche, umane e finanziarie per intervenire con maggiore incisività nelle campagne, ma la politica dei generali ci tiene incatenati, lasciando il popolo nella miseria». La giunta ha sempre ostacolato ogni coinvolgimento straniero nello sviluppo sociale, preferendo gestire direttamente ogni intervento. In questo modo è riuscita a controllare capillarmente il territorio, evitando ogni possibile osservazione non gradita. Nel 2007, a Kengtung, ero presente quando la Croce Rossa chiuse l’ultimo ufficio operativo nel Paese perché i militari impedivano ai funzionari di visitare le carceri dove i detenuti venivano (o meglio, vengono) torturati; nel 2008 un’organizzazione giapponese, presente in Myanmar da trent’anni, ha preferito lasciare polemicamente il Paese piuttosto che continuare a pagare tangenti agli amministratori locali per poter verificare lo stato dei loro progetti. «La corruzione ha raggiunto livelli insopportabili» mi disse una cooperante mentre l’accompagnavo all’aeroporto, «Abbiamo dato loro l’aut aut sperando che cambiassero pretese: o ci lasciate lavorare o ce ne andiamo. Ci hanno accompagnato alla porta». Bisogna viverla questa Myanmar per capire cosa significa convivere con questo governo: «per portare gli aiuti alle popolazioni colpite dall’urgano Nargis abbiamo dovuto pagare gli amministratori locali dal livello più basso a quello più alto.» mi ha spiegato un coordinatore del progetto nel delta dell’Ayerwaddy: «Ora con tutte le organizzazioni che si sono offerte per intervenire, i “regali” a questi amministratori dovranno essere aumentati. E’ assurdo: dobbiamo pagare il governo per aiutare i suoi stessi cittadini abbandonati da chi per primo dovrebbe soccorrerli». Il paradosso è che nessuno degli operatori umanitari incontrati nella nazione, crede che un cambio di potere possa migliorare la situazione. La Lega Nazionale per la Democrazia è divisa in varie fazioni che lottano tra loro per spartirsi i fondi provenienti dall’Europa e dagli Stati Uniti. Ogni leader, fatta eccezione di Aung San Suu Kyi, tiene stretto il proprio dipartimento, generalmente collegato a rappresentanti del governo in esilio che garantiscono l’arrivo di cospicue somme di valuta pregiata. In questo quadro appare difficile la gestione diretta degli aiuti umanitari da parte delle agenzie, che però sembrano accettare di buon grado le regole imposte dai militari. Il Myanmar, Paese “vergine” e tutto da sfruttare, fa gola a troppi, ONG o multinazionali, da sempre alla ricerca di un modo “politicamente corretto” per fare affari con la giunta. In questo senso Nargis rischia di trasformarsi in una provvidenziale zecca che potrebbe rimpinguare le casse dello stato, del resto mai particolarmente provate dall’embargo imposto dall’Europa e dagli Stati Uniti.
© Piergiorgio Pescali
S-21 - Nella prigione di Pol Pot
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