Non dimenticare la storia


Als die Nazis die Kommunisten holten, habe ich geschwiegen;
ich war ja kein Kommunist.
Als sie die Sozialdemokraten einsperrten, habe ich geschwiegen;

ich war ja kein Sozialdemokrat.
Als sie die Gewerkschafter holten, habe ich nicht protestiert;

ich war ja kein Gewerkschafter.
Als sie die Juden holten, habe ich nicht protestiert;

ich war ja kein Jude.
Als sie mich holten,
gab es keinen mehr, der protestierte.


Quando i nazisti vennero per i comunisti, io restai in silenzio;
non ero comunista.
Quando rinchiusero i socialdemocratici, rimasi in silenzio;
non ero un socialdemocratico.
Quando vennero per i sindacalisti, io non feci sentire la mia voce;
non ero un sindacalista.
Quando vennero per gli ebrei, non protestai;
non ero un ebreo.
Quando vennero per me, non era più rimasto nessuno che potesse far sentire la mia voce.

(Emil Gustav Friedrich Martin Niemöller; Lippstadt, 14 gennaio 1892 – Wiesbaden, 6 marzo 1984)



S-21 - Nella prigione di Pol Pot

S-21 - Nella prigione di Pol Pot
S-21; un romanzo storico, una narrazione viva e potente che porta il lettore in una struttura detentiva istituita dal regime degli Khmer Rossi, una prigione da cui pochi sono tornati, seppur segnati nel corpo e nello spirito, vivi.

IL CUSTODE DI TERRA SANTA - un colloquio con padre Pierbattista Pizzaballa

IL CUSTODE DI TERRA SANTA - un colloquio con padre Pierbattista Pizzaballa
FESTIVAL FRANCESCANO 2014 - Rimini, piazza Tre Martiri,SABATO 27 SETTEMBRE - ORE 15.00 Presentazione del libro Il Custode di Terra Santa

INDOCINA - Un libro, una saggio, una guida per chi vuole approfondire

INDOCINA - Un libro, una saggio, una guida per chi vuole approfondire
Per ordinarne una copia: 3394551575 oppure yasuko@alice.it
© COPYRIGHT Piergiorgio Pescali - E' vietata la riproduzione anche parziale senza il consenso dell'autore

Cambogia - La discesa del Mekong (1993)

Il Mekong: quattromilacinquecento chilometri di leggende e miti. Forse il fiume che più di ogni altro al mondo è stato testimone dello svolgersi di sanguinose guerre: sicuramente le sue torbide acque sono tra le meno esplorate del globo a causa della lunga storia di ermeticità dei Paesi che attraversa: Cina, Laos, Cambogia e Vietnam.
Attualmente (siamo all’inizio degli anni novanta) solo la Cambogia tollera, seppur non ufficialmente, che stranieri percorrano la parte di fiume che attraversa il paese da nord a sud, ma i rischi ed i disagi sono talmente elevati che sino ad oggi nessuno si è azzardato a compiere l’impresa. Così, sconsigliato da tutti, inizio la discesa del Mekong cambogiano fino a Phnom Penh iniziando da Stung Treng, graziosa cittadina di ventimila abitanti adagiata sulle rive del fiume a trenta chilometri dal confine laotiano.
A Stung Treng si trovano ancora gli ultimi cercatori d’oro, eredi di una generazione ormai in via di estinzione. Esauriti i filoni, oggi solo le donne ed i bambini più disperati si ostinano a setacciare la terre delle rive, raggranellando quel tanto che basta per comprarsi una manciata di riso e del pane.
La vita sonnolenta e quieta della cittadina è smossa un paio di volte alla settimana dall’arrivo dei barconi provenienti dalla capitale. Allora la gente si raduna lungo l’attracco, osservando la mercanzia che viene dalla città, i passeggeri vestiti all’ultima moda e cercando di catturare in anteprima le ultime notizie di un mondo a cui appartengono, ma che è troppo lontano per seguirlo al passo.
Non ci sono battelli adibiti a trasporto passeggeri, per cui chi intende navigare sul Mekong, deve accontentarsi di barconi merci che partono senza alcuna regolarità.
La sera prima di lasciare Stung Treng il piccolo contingente UNATC del luogo, formato da australiani, russi, indiani e uruguagi, organizza in mio onore un barbecue.
La mattina seguente di buon’ora mi imbarco sul Monorom, nome pomposo con cui è battezzata una non altrettanto lussuosa barca. Mi sistemo assieme ad altri diciannove passeggeri tra noci di cocco, sacchi di riso, mobili ed assi di legno ricavate dal taglio indiscriminato della rigogliosa foresta tropicale e che costituiscono la fonte principale di ricchezza della regione.
Verso le sei, terminate le ultime operazioni di carico merce, do l’addio a Stung Treng.
Nessuno dei cambogiani a bordo parla inglese e tutti mi guardano con curiosità. Il ghiaccio si spezza immediatamente quando estraggo la macchina fotografica ed inizio a farla funzionare. La maggior parte dei miei compagni di viaggio si reca a Phnom Penh per lavoro o per visitare qualche parente. La scelta di navigare anziché procedere via terra o aerea, è dovuta ad una questione finanziaria: il viaggio in barcone costa quarantamila riels (circa quindici dollari, l’equivalente di un mese di lavoro), contro i cinquanta dollari del volo aereo e i trenta del taxi collettivo.
Il felice esito del viaggio dipende dalla buona o cattiva sorte: bisognerà attraversare una zona controllata dai Khmer Rossi, che hanno istituito diversi check-point. A seconda del numero dei posti di blocco in funzione e di chi è in turno al loro comando, i controlli possono essere più o meno severi.
Dopo tre ore di navigazione giungiamo al limite delle acque controllate dall’esercito governativo. Il capitano della nave attracca alla postazione militare di Sambak per avere gli ultimi ragguagli sulla situazione e per pagare il dazio, diecimila riels, la maggior parte dei quali finiranno in tasca ai soldati della guarnigione.
Verso le dieci ripartiamo per entrare nel territorio di Kampuchea Democratica. L’atmosfera sulla barca diviene improvvisamente tesa: i passeggeri scrutano attentamente le rive ricoperte da una lussureggiante vegetazione alla ricerca dei posti di blocco. Cercare di sfuggire ad uno di essi significa rischiare l’affondamento dell’imbarcazione e l’arresto dei suoi occupanti superstiti. Nessuno ha più voglia di parlare ed i sorrisi spontanei che illuminavano i volti dei passeggeri, si sono spenti o sono esplicitamente forzati.
Trahn, un ragazzo di origine vietnamita, mi si avvicina e cerca di farmi capire che, molto probabilmente, i Khmer Rossi cercheranno di trattenete il corredo fotografico presso di loro.
Anche il paesaggio si trasforma. Le piogge di stagione hanno ingrossato il fiume sino a inondare una vasta area di basse terre, lasciando affiorare solo le fronde degli alberi e le cime delle colline, divenute isolotti.
Il timoniere della nave, forte della sua pluriennale esperienza, segue una rotta a zig-zag, evitando accuratamente i fondali bassi ed i tronchi trascinati dalla corrente.
Verso le dieci e quarantacinque sentiamo una serie di spari provenire dalla riva destra dell’isola di Kompong Bohn. Immediatamente il capitano fa invertire i motori e segnala alla postazione dei Khmer Rossi che stiamo approdando a riva. In una radura scorgo sette o otto ragazzi, tutti sui quindici anni ed armati di AK-47 ed un mortaio. Quello che sembra essere il capo impugna un fucile anticarro puntato contro lo scafo della barca. Per mezz’ora a terra fervono le trattative tra il capitano e i Khmer Rossi. Sulla barca nessuno fiata: solo di tanto in tanto qualcuno sussurra qualcosa a denti stretti. Alla fine vedo il figlio del capitano portare un mazzo di riels, forse cinquanta, sessantamila, al ragazzo Khmer Rosso.
L’accordo è stato raggiunto!
Si levano gli ormeggi e si riprende il largo.
Nonostante il passaggio indenne dal primo check-point, gli animi non si distendono. Le piogge sembra siano state più copiose in questa regione perché la distesa d’acqua si è allargata considerevolmente. Barche di pescatori risalgono faticosamente la corrente con il loro carico.
Alle undici e quaranta, una seconda serie di spari ci avverte che un altro posto di blocco è sulla sponda. Questa volta le pallottole colpiscono l barca, conficcandosi in una delle travi. Si ripete la scena precedente.
Il capo è un uomo asciutto sulla quarantina, che impugna una pistola che carica al momento. Di nuovo il comandante scende con un pacco di banconote, ma le cose si complicano quando il Khmer Rosso mi scorge.
Mi intima di scendere a terra e, senza troppe spiegazioni, mi fa capire che sono in arresto perché non ho il lasciapassare per attraversare le zone di Kampuchea Democratica. Inutile mostrare il passaporto italiano e tanto meno la tessera di giornalista accreditato presso l’UNTAC; neppure una lettera autografa di Khieu Samphan che invita i Khmer Rossi a lasciarmi passare indenne, smuovono il Khmer Rosso dalla sua decisione.
Il comandante della nave tenta di intervenire in mio favore, ma viene immediatamente zittito da un colpo di pistola sparato in aria. E’ chiaro oramai che Bhi, questo è il nome con cui viene chiamato il capo della guarnigione, è un osso duro. Forse non è neppure un Khmer Rosso, visto che se ne frega della lettera di Khieu Samphan.
Per mia fortuna, i passeggeri e l’equipaggio del Monorom, nonostante la paura che pervade i loro animi, si rifiutano di partire lasciandomi a terra. Così ora è Bhi che si trova nell’inaspettata condizione di dover trattare. Anche i suoi compagni d’arme, colpiti dalla firma di un leader della massima dirigenza del movimento, sembrano disposti a cedere, ma l’ira di Bhi li ammutolisce.
Vistosi isolato, il comandante della guarnigione tenta di giocare un’ultima carta: impugnata saldamente una pistola estratta dal suo zaino, me la punta alla tempia. Urla qualcosa a squarciagola al mio indirizzo e vedo gli sguardi terrorizzati dei miei compagni di viaggio. Il comandante, solitamente così diplomatico e sicuro di sé, trema seduto su un tronco d’albero.
Con la coda dell’occhio vedo il dito indice di Bhi che preme il grilletto della pistola. Chiudo gli occhi d’istinto, sento delle grida provenire dalla barca e dai guerriglieri che mi stanno accanto, quindi il click metallico dell’otturatore. Poi un altro, ed un altro ancora di seguito.
Per mia fortuna l’arma che Bhi aveva presa dallo zaino era scarica ed ha solo sceneggiato la mia esecuzione.
Passano dei minuti interminabili, al termine dei quali scaturisce un’ennesima proposta: in cambio della mia liberazione, devo lasciare al campo tutto il materiale fotografico.
Con molta indecisione rifiuto.
Questa volta anche il capitano, ripresosi dallo spavento, interviene in mio appoggio.
Altre trattative si susseguono per circa trenta lunghissimi minuti ed alla fine concordiamo per un pagamento di trecento dollari.
Finalmente posso risalire sul battello. Mi accorgo di essere madido di sudore, ma anche gli altri passeggeri non son da meno. Per scaricare la tensione accumulata, una ragazza inizia a piangere.
Quando salpiamo sono le cinque del pomeriggio.
Dopo l’avventura assaporo con maggior gusto il paesaggio e la chiglia della nave che fende le acque. Non mangio dalla sera precedente, ma non sento alcun morso nel mio stomaco.
I compagni di viaggio mi informano che dobbiamo passare ancora un posto di blocco prima di uscire dal territorio controllato dai Khmer Rossi. Per evitare ulteriori complicazioni, il capitano nasconde la borsa fotografica, mentre io dovrò sdraiarmi sul ponte facendo finta di dormire.
Alle cinque e mezza ecco che una serie di spari identifica l’ubicazione del campo. Mi avvolgo il kramar attorno alla testa e mi sdraio. Uno dei passeggeri mi copre con una coperta. Sento la barca spegnere il motore e delle voci di ragazzi e ragazze giungere da terra. Nessuno sulla barca sparla. Tra il silenzio generale si ode solamente il rumore dei passi dei guerriglieri che ispezionano la nave. Una voce femminile pone delle domande a cui i passeggeri rispondono velocemente e con gentilezza, quasi con ossequio. I passi si avvicinano e si fermano di fronte a me. Dalle pieghe della coperta scorgo i piedi sporchi di fango. Se ne vanno. In cucina qualcosa sta friggendo del cibo.
Mi sembra passata un’eternità quando sento i motori del Monorom riaccendersi.
Mi alzo e vedo in lontananza le figure dei Khmer Rossi che stanno tornando nel loro accampamento. Gli animi, ora che si sta uscendo dall’area considerata a rischio, si rasserenano. Anche il tramonto contribuisce a distendere i nervi. In silenzio assaporiamo il sole che sta calando dolcemente dietro la collina tingendo le acque, solitamente marrognole del Mekong, di un colore innaturale. Una piccola barca si staglia contro gli ultimi bagliori del giorno che sta morendo.
I motori cessano di martellare l’aria e il Monorom attracca alla riva del fiume. Un silenzio magico e rassicurante, dopo le urla e gli spari di qualche ora prima, ci avvolge assieme alle tenebre. E’ ora di dormire.
La discesa del fiume riprende il mattino seguente alle cinque. Con la sicurezza di essere usciti dalle zone di pericolo, siamo tutti più allegri. Il capitano, sapendo che non mi son portato nulla da mangiare, mi offre un piatto di riso con qualche boccone di carne, mentre un’anziana signora mi porge delle banane. Nel frattempo vengo a sapere che durante l’ultima ispezione di ieri, i Khmer Rossi hanno preteso l’equivalente di cinquecento dollari da un passeggero, Hanno anche domandato chi fosse quell’uomo sdraiato sotto la coperta, ricevendo come risposta un rischiosissimo “un khmer che sta male ed ha la febbre”.
Il fiume è ora rientrato nell’alveo consueto. Alle sei attracchiamo ad un posto di controllo dell’esercito governativo, dove il passeggero derubato sporge un’inutile denuncia.
Dopo altri tre posti di blocco arriviamo al minuscolo porticciolo di Kampi, abitato da vietnamiti e situato a soli venti chilometri da Kratie. Qui incontriamo altri battelli che, come noi, aspettano il nulla osta per poter proseguire verso sud, In un battibaleno tutto il porto viene a conoscenza delle vicissitudini da noi subite ed attorno al Monorom si forma un capannello di curiosi. Ora che il pericolo è solo un ricordo, i miei compagni sono in vena di spiritosaggini e raccontano divertiti la storia della mia mancata esecuzione.
Dovremo stare a Kampi sino alla mattina seguente perché il lasciapassare giunga da Kratie, quindi i passeggeri ne approfittano per scendere a terra, sgranchirsi le gambe, giocare a carte, lavarsi, preparare da mangiare.
Al terzo giorno di navigazione la velocità di crociara diviene più sostenuta. Dopo aver superato Kratie, il traffico sul Mekong si intensifica notevolmente ed anche i villaggi lungo il corso si infittiscono. Aumentano soprattutto gli agglomerati di pescatori che posseggono piccoli allevamenti privati. Ci fermiamo in uno di questi per un paio d’ore perché Khim, uno dei passeggeri, qui termina il suo viaggio.
Colgo l’occasione per girovagare attorno al villaggio con lui ed il fratello, che parla qualche parola d’inglese. Khim, che vive con la madre vedova, si dice preoccupato per le nuove tasse e le nuove legislazioni che dovrebbero regolamentare l’allevamento ittico in Cambogia e che penalizzerebbero i pescatori più deboli a favore dei grandi proprietari e delle industrie pescherecce che stanno sorgendo un poco ovunque con capitali stranieri.
Verso le dieci ripartiamo alla volta di Kompong Cham, l’ultimo scalo notturno prima di raggiungere Phnom Penh. Il Mekong è oramai rientrato nei propri argini, segno che la stagione delle piogge in questa regione cambogiana non è stata abbondante. Ne risentiranno soprattutto i contadini.
Il paesaggio si spiana verso l’orizzonte e divengono sempre meno numerose le colline che caratterizzano il corso settentrionale del fiume. Dopo cinque ore di navigazione arriviamo a Kompong Cham, attiva cittadina di settantamila abitanti che conserva pregevoli esempi di edifici coloniali francesi. Il suo porto, dopo quello di Phnom Penh, è il più trafficato della Cambogia.
Mancano oramai solo centotrenta chilometri alla capitale e trecentoventi li abbiamo lasciati alle spalle.
Anche a Kompong Cham la notizia del mio arresto si sparge a macchia d’olio e, ancora una volta, il Monorom è meta di curiosi che vogliono conoscere gli avvenimenti dai diretti testimoni. Una delegazione dell’UNTAC intervista ad uno ad uno il capitano e i passeggeri per stilare un rapporto dell’accaduto al quartier generale della capitale.
Tormentato dai morsi della fame, scendo a comprare pane, riso e frutta.
Il porto di Kompong Cham è dominato dalla candida mole dell’hotel dove alloggiano i militari delle Nazioni unite. La tentazione di affittare una camera, farmi una doccia e dormire tranquillo è irresistibile, ma il capitano e gli altri passeggeri insistono affinché passi con loro anche l’ultima notte del viaggio.
L’indomani salpiamo alle sei. Via via che ci avviciniamo alla capitale, il traffico fluviale si intensifica, anche a causa dei vietnamiti che si spostano verso il confine per paura di subire attacchi xenofobi da parte dei cambogiani di razza khmer.
Finalmente, atte tre del pomeriggio, intravedo la sagoma del Palazzo Reale di Phnom Penh stagliarsi contro il cielo. Lentamente passiamo accanto al Floating Hotel, la lussuosa nave-albergo di proprietà tailandese portata fin qui risalendo il Mekong dalle sue foci vietnamite.
Oramai il viaggio è al termine: quattrocentocinquanta chilometri e quattro giorni trascorsi sul Monorom, mi hanno regalato nuovi Amici (con la “a” maiuscola). Compagni che hanno rischiato la loro stessa vita per difendere quella di uno sconosciuto quale ero per loro, nel momento del bisogno. Se la teoria del karma è esatta, quello di queste persone ne avrà sicuramente beneficiato.
Lascio il Monorom con un poco di risentimento incamminandomi sul lungofiume. Le acque del Mekong continuano a scorrere lente verso il loro destino.

© Piergiorgio Pescali

Nessun commento: