Non dimenticare la storia


Als die Nazis die Kommunisten holten, habe ich geschwiegen;
ich war ja kein Kommunist.
Als sie die Sozialdemokraten einsperrten, habe ich geschwiegen;

ich war ja kein Sozialdemokrat.
Als sie die Gewerkschafter holten, habe ich nicht protestiert;

ich war ja kein Gewerkschafter.
Als sie die Juden holten, habe ich nicht protestiert;

ich war ja kein Jude.
Als sie mich holten,
gab es keinen mehr, der protestierte.


Quando i nazisti vennero per i comunisti, io restai in silenzio;
non ero comunista.
Quando rinchiusero i socialdemocratici, rimasi in silenzio;
non ero un socialdemocratico.
Quando vennero per i sindacalisti, io non feci sentire la mia voce;
non ero un sindacalista.
Quando vennero per gli ebrei, non protestai;
non ero un ebreo.
Quando vennero per me, non era più rimasto nessuno che potesse far sentire la mia voce.

(Emil Gustav Friedrich Martin Niemöller; Lippstadt, 14 gennaio 1892 – Wiesbaden, 6 marzo 1984)



S-21 - Nella prigione di Pol Pot

S-21 - Nella prigione di Pol Pot
S-21; un romanzo storico, una narrazione viva e potente che porta il lettore in una struttura detentiva istituita dal regime degli Khmer Rossi, una prigione da cui pochi sono tornati, seppur segnati nel corpo e nello spirito, vivi.

IL CUSTODE DI TERRA SANTA - un colloquio con padre Pierbattista Pizzaballa

IL CUSTODE DI TERRA SANTA - un colloquio con padre Pierbattista Pizzaballa
FESTIVAL FRANCESCANO 2014 - Rimini, piazza Tre Martiri,SABATO 27 SETTEMBRE - ORE 15.00 Presentazione del libro Il Custode di Terra Santa

INDOCINA - Un libro, una saggio, una guida per chi vuole approfondire

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Angor Wat - Arte e simbologia

Chissà cosa avranno pensato i primi missionari e commercianti europei che, nel XVII secolo, visitarono le rovine di Angkor...
Le cronache dell’epoca ci testimoniano un fermo rifiuto nel considerare tali opere come frutto di organizzazioni sociali autoctone. Così, come già avvenne per le città precolombiane, anche la costruzione di Angkor fu attribuita, a secondo delle fantasie di questo o quello studioso, a popolazioni di origine europea, ad Alessandro Magno, ai Romani o agli ebrei cinesi.
Poi, a causa della chiusura dei commerci, per due secoli, le pietre di Angkor furono dimenticate e servirono solo a reggere leggende che si narravano sul loro conto.
La colonizzazione francese portò nuovo vigore all’esplorazione naturalistico-archeologica: si risalirono fiumi, ci si inoltrò in foreste e nel 1860, Henri Mouhot, lavorando sulla base di racconti popolari, riuscì ad individuare per la terza volta, il sito di Angkor.
Fu, però, solo nel 1898, con la fondazione dell’Ecole Française d’Etreme Oriente, che si iniziò a coordinare un lavoro di restauro e di pulitura per liberare i monumenti dalle spire della rigogliosa vegetazione tropicale.
Gli studi su Angkor condotti in quel periodo, resero finalmente giustizia alla storia del popolo Khmer: il complesso era stato il centro politico, sociale, religioso, economico e culturale di un impero che, al tempo del suo massimo splendore, controllava gran parte della Thailandia, del Laos, la Cocincina e la Cambogia.
Fu il mitico Jayavarman II, fuggito dalla corte di Giava, che ricostruì nell’802 d.C., un regno indipendente dalle ceneri del defunto reame di Chenla.
Con la fondazione dei templi di Ak Thom e Phnom Kulen, inizia la gloriosa epopea di Angkor, che dominò il Sud Est Asiatico sino al XV secolo, con una parentesi tra il 1080 e il 1145, quando i Cham giunsero ad occupare la città.
Paradossalmente, fu proprio questo evento che ridiede vigore ad un’architettura ed uno stile oramai logoro e infiacchito. Con la riconquista della capitale (Angkor, in lingue khmer significa, appunto, “capitale”) da parte di Suryavarman II, inizia il rinascimento dell’impero.
Un’epoca tutta rivolta all’esaltazione del proprio essere, della natura ed a ripristinare i bacini d’irrigazione artificiali iniziati da Jayavarman II e che consentivano ad un milione di persone, di sostentarsi coltivando il riso.
L’impero, provato nel suo orgoglio, doveva ritrovare lo smalto perduto ed il sovrano era tenuto a ringraziare gli dei e testimoniare ai posteri il suo trionfo e la sua potenza.
Nasce quindi Angkor Wat, che rimane ancor oggi il tempio meglio conservato del sito, dato che fu abitato da monaci buddisti anche dopo il crollo definitivo del regno.
Visitare Angkor Wat, significa ripercorrere un itinerario cosmologico hindu che ha una parallela corrispondenza con le vicende storiche del tempo.
Come, nella mitologia classica induista, gli dei crearono il mondo con “L’agitazione del Mare di Latte”, così nella realtà Suryavarman ricreò l’impero Khmer infliggendo la disfatta ai Cham.
Angkor Wat era quindi il simbolo della rinascita di un nuovo e più potente impero e del suo fondatore.
Si ripete la stretta connessione re-dio, che aveva caratterizzato i primi secoli di Angkor.
Il percorso oggi compiuto in modo distaccato dai turisti estasiati, è il medesimo che, per secoli, migliaia di nobili, bramini, monaci, guerrieri, re, sudditi, percorrevano con animo ben differente, consci che stavano addentrandosi nel vortice della genesi della vita, oltre che entrare nel cuore di un regno potente e, in un certo senso, sovrumano.
I Naga, i serpenti acquatici che aiutano Vishnu nella sua opera di agitazione dell’oceano cosmico, accolgono il pellegrino che si appresta ad attraversare le acque marine, rappresentate dal lago che circonda il monumento.
Un primo ostacolo nel raggiungere la purezza del complesso centrale, è dato dalla galleria esterna, simbolo fisico delle montagne dell’inizio del mondo e dell’ignoranza dell’uomo, che impedisce la nitida visione del Monte Meru, il centro dell’Universo, simbolizzato dalla torre centrale.
Superata la prima galleria, si entra nella fase di purezza sovraterrena: il centro del complesso -e quindi del Cosmo- è ben visibile, ma non ancora raggiungibile. Occorre attraversare un oceano interno; i Naga continuano ad aiutare Vishnu nel suo lavoro, ma questa volta le loro spire si attorcigliano attorno al Monte Meru, lo stringono e lo scuotono roteandolo vorticosamente nel Mare di Latte per produrre l’ambrosia, il mitico nettare degli dei.
La galleria interna, lunga 475 metri, che circonda le cinque torri centrali, è la glorificazione di Suryavarman II. I sette bassorilievi che adornano, rappresentano scene mitologiche e storiche, ma la figura del sovrano è sempre presente, solitaria o associata a Vishnu.
Prima di procedere verso la scalata finale, il pellegrino deve compiere il rito di purificazione procedendo attraverso la galleria in senso orario (da ovest ad est e da est a ovest).
Nel primo androne è rappresentata la battaglia combattuta tra i Pandava ed i Kurava, una scena mitologica tratta dal poema epico del Mahabharata.
Nella prima metà della galleria sud si celebra la vittoria di Suryavarman II sui Cham. Il sovrano è seduto sul dorso di un elefante coperto da undici ombrelli, simbolo di potere. La supremazia della razza Khmer è evidente nel bassorilievo, se si confronta l’esercito ben armato e disciplinato di Suryavarman con i suoi alleati Thai, raffigurati come un’armata Brancaleone in stile orientale.
A fianco della scena della guerra di liberazione, si trova la serie di punizioni e di meriti che l’uomo deve aspettarsi dopo la morte. Certamente l’accoppiamento non è casuale, dato che il re Khmer si pone sul gradino più alto della scala dei valori per i meriti acquisiti in vita.
La scena dell’Agitazione del Mare di Latte, che domina l’idea progettuale del tempio, è ripetuta nella prima metà della galleria est, la parte cioè, rivolta verso il sorgere del sole, a simboleggiare l’origine della vita dopo l’oscurità ed il caos. E’ questo il bassorilievo più noto e meglio conservato di Angkor Wat. Al centro Vishnu-Suryavarman, dirige l’operazione di “frullatura” delle acque. A sinistra, gli Asura, guidati da Ravana, ed a destra gli dei celesti comandati da Hanuman, stringono il Vasuki, il dio-serpente che funge da corda.
Sotto di esso, ci sono i demoni marini; sopra le Apsara, ninfe divine nate dall’agitazione e che rappresentano nell’arte Khmer, l’ideale della bellezza femminile.
Tempestate di gioielli e raffigurate in atteggiamenti erotici, l’unico scopo della loro vita è quello di intrattenere sessualmente gli eroi Khmer e gli dei del pantheon hindu. Nella vita reale, le Apsara possono essere assimilate alle danzatrici di corte che, forse proprio per questa loro caratteristica, furono particolarmente perseguitate durante il periodo di Kampuchea Democratica.
In questa sezione di bassorilievi, è interessante notare come lo scultore, o gli scultori, siano riusciti a rendere il senso del movimento, anticipando di sette secoli l’invenzione dell’esposizione multipla fotografica, alla testa di Ravana, raffigurandola con ventuno lineamenti concentrici; una sensazione che, in un modo differente e meno efficace, sono riusciti a rendere solo gli egizi nei loro affreschi.
La seconda parte della galleria rivolta ad est, che non fu mai completata, rappresneta la guerra divina per il possesso dell’ambrosia; una continuazione, quindi, dell’”Agitazione del Mare di Latte”.
Nella galleria nord, le Trimurti induiste (Shiva, Brahma, Vishnu), sono scolpite in posizione meditativa con Ganesha, il dio-elefante, mentre attorno a loro infuria la battaglia tra demoni e dei.
Infine, nell’ultima parte della galleria ovest, che si ricongiunge all’entrata principale, è raffigurata una scena tratta dal Ramayana: la battaglia tra Rama e Ravana.
Il pellegrino ha compiuto la circonferenza del Monte Meru, aiutando il Naga ad avvolgere nella propria spirale il centro dell’Universo.
Ma, proprio quando la meta sembra raggiunta, un cunicolo cela la vista completa e liberatoria del monte sacro. Le scale si fanno più ripide e la fatica invita a desistere dall’impresa. Solo chi è armato di volontà, ha la forza di continuare. Ma alla fine gli sforzi verranno ricompensati: ecco, all’improvviso, ergersi il centro del Cosmo, il Monte Meru, la torre principale che contiene quello che i giapponesi chiamano “oku”, il punto più inaccessibile, il cuore dell’interno, ciò che dall’esterno è impossibile a vedersi.
Come in tutte le costruzioni consacrate, le dimensioni di Angkor Wat hanno un significato religioso ben preciso. La studiosa di Storia dell’Arte, Eleanor Mannika, ha calcolato che il ponte che collega Angkor Wat al mondo profamo, misurato il hat (l’unità di misura khmer), è pari a 432.000, tanti quanti sarebbero gli anni di decadenza del mondo, seguiti da 1.728.000 anni dell’”Età dell’Oro”, esattamente la distanza in hat che corre tra il primo gradino del ponte e la soglia del tempio.
Lo stretto collegamento tra simbologia sacra e costruzione fisica, ha determinato l’enorme dimensione del tempio, che ha richiesto trent’anni di continuo lavoro per essere portato a termine.
Certamente, mantenere e restaurare una simile opera, richiede costante applicazione e tecniche sofisticate che, attualmente, la Cambogia non possiede. A peggiorare ulteriormente la situazione, ha contribuito il lungo embargo internazionale e la guerra civile che ha sconvolto il paese sino a qualche anno fa e che aveva in Angkor uno dei punti nevralgici di contesa, per l’importanza psicologica che il suo controllo poteva avere sulla popolazione Khmer e sulla comunità internazionale.

© Piergiorgio Pescali

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