Aung San
Suu Kyi ha terminato il suo tour europeo che l’ha portata, come ultima tappa,
anche in Italia. La sua figura ha affascinato migliaia di persone ed a Roma,
Torino, Bologna e Parma, le città in cui è stata ospite, l’accoglienza è stata,
a dir poco, calorosa. Prima che rientrasse in Myanmar l’abbiamo incontrata.
DOMANDA: Può fare un bilancio del suo ennesimo
viaggio in Europa?
ASSK: Ogni
viaggio porta con sé dei ricordi indelebili. Sono stata in paesi in cui non ero
mai stata, come la Polonia, ed in altri, come il vostro, dove mancavo da
decenni. Ho incontrato persone meravigliose, persone che per anni si sono
prodigate affinché in Birmania tornasse la democrazia, e persone da profondi
principi umani e spirituali.
DOMANDA: Quando parla di uomini dai profondi
principi umani e spirituali pensa a qualcuno in particolare?
Aung San Suu Kyi e papa Francesco |
ASSK: Sicuramente
esistono persone che ti colpiscono per la gentilezza e la spiritualità che
sprigionano con la loro voce, il loro sguardo, le loro parole. Il papa, ad
esempio, mi ha colpito molto. Con lui mi sono trovata subito in sintonia,
in particolare sulla necessità di valorizzare
sentimenti come amore e comprensione per fugare le paure che dividono i popoli.
Purtroppo non abbiamo avuto molto tempo per approfondire la conversazione, ma
gli argomenti toccati, il suo acume e la sua semplicità mi sono rimasti
impressi. E’ una persona con cui mi sono sentita immediatamente in sintonia. Mi
piacerebbe incontrarlo ancora.
DOMANDA: Lei ha ricevuto tantissime promesse
durante la sua visita, specialmente dai parlamentari. Penso sappia che i
politici italiani non hanno la fama di mantenere le promesse fatte e l’Italia
ha brillato più per la sua assenza piuttosto che per la sua presenza nelle
vicende asiatiche. Non vorrei essere pessimista, ma pensa che una volta tornata
in Myanmar ci si ricorderà del suo paese nel parlamento italiano?
ASSK: Spero
vivamente di sì. L’Italia ha appoggiato con forza il movimento democratico e
numerose personalità del mondo dello spettacolo, della cultura, della politica
si sono esposte in primo piano nella difesa dei diritti umani in Birmania.
DOMANDA: A proposito di diritti umani: a che
punto siamo nel processo di pacificazione con le nazioni etniche?
ASSK: Ci
sono alti e bassi: il governo insiste affinché sia il parlamento a discutere la
questione etnica. In effetti ci sono diversi membri che rappresentano le etnie
nel nostro parlamento ed è per questo che, in questa sede, il dialogo sta già
avvenendo. Da parte loro, i gruppi etnici chiedono che la questione venga
discussa al di fuori del parlamento e con terze parti che facciano da garanti.
Ciò che è venuto a mancare durante gli anni della dittatura militari, è la
capacità del dialogo e del compromesso. Nessuno vuole cedere sulle loro
richieste e questo porta inevitabilmente ad uno stallo dei negoziati.
DOMANDA: E’ ciò che sta avvenendo anche nello
stato Rakhine tra musulmani e buddisti?
ASSK: In un
certo senso sì, anche se lì non direi che si tratti di un conflitto etnico. E’
un contrasto completamente differente da quello in atto nelle altre parti del paese,
alimentato da un senso di terrore che serpeggia in entrambe le comunità.
DOMANDA: La paura è, quindi, secondo lei, una
delle ragioni per cui nello stato Rakhine la comunità buddista e quella Rohingya
musulmana si stanno fronteggiando violentemente. Nega, quindi, che vi siano
ragioni più profonde nel conflitto etnico-religioso?
ASSK: Prima
di tutto vorrei specificare che non siamo di fronte ad un conflitto etnico.
DOMANDA: Su questo, organizzazioni che si
occupano di diritti umani e di sviluppo umanitario non sono assolutamente d’accordo
con lei e l’hanno anche duramente
criticata.
ASSK: Ribadisco
che è la paura la causa delle violenze in atto tra buddisiti e musulmani e non
la differenza etnica. La comunità internazionale punta il dito accusatore solo verso
i buddisti, ma anche loro hanno subito violenze. Ci sono migliaia di buddisti
che sono dovuti fuggire durante il regime militare ed ancora oggi vivono in
campi profughi.
DOMANDA: Associazioni e movimenti che si
occupano della questione all’interno dello stato Rakhine l’hanno accusata di
non voler difendere i diritti della comunità islamica per un puro calcolo
elettorale in vista delle elezioni presidenziali del 2015.
ASSK: Posso
rispondere dicendo anche io che le loro accuse sono un’assurdità. Io e il mio
partito, la Lega Nazionale per la Democrazia, abbiamo sempre sostenuto che il
governo avrebbe dovuto controllare e far rispettare il confine tra Birmania e
Bangladesh. Per anni nessuno se n’è occupato con il risultato che migliaia di
immigrati clandestini oggi sono in territorio birmano. La radice del problema è
tutta qui, oltre al fatto che in Birmania c’è la paura che elementi esterni
possano destabilizzare il paese.
DOMANDA: E’, però, un dato di fatto che vi sono
movimenti buddisti, come il Movimento 969, che istigano alla xenofobia, se non
addirittura alla violenza.
ASSK: Io
condanno ogni tipo di violenza, ma se vuole che condanni solo la violenza dei
buddisti contro i musulmani, allora non lo farò. Condannare una sola comunità
serve solo ad istigare altra violenza e se le mie parole fossero fraintese chi ne farebbe le spese sarebbe il popolo, non io che le ho
pronunciate.
DOMANDA: Quale è, quindi, la soluzione che
propone?
ASSK: Il
primo punto del mio programma politico è far rispettare le regole. In Birmania,
come in altri paesi del mondo, si ha la percezione e la paura che vi sia un
potere musulmano globale che possa destabilizzare i paesi in cui questo potere si
insinua. Ciò significa che il problema di cui stiamo discutendo non è solo un
problema birmano, ma internazionale. Lei mi chiede quale soluzione propongo; è
semplice: io la chiamo rispetto della legge e della giustizia. Io e il mio
partito, la Lega Nazionale per la Democrazia, abbiamo sempre sostenuto che il
governo avrebbe dovuto controllare e far rispettare il confine tra Birmania e
Bangladesh. Per decenni i regimi militari birmani non hanno mai controllato il
confine con il Bangladesh lasciando che questo diventasse estremamente poroso e
permettendo a migliaia di persone di entrare illegalmente in Birmania. Ora, io
chiedo che si rispetti la legge di cittadinanza: chi ha la facoltà di diventare
cittadino birmano, deve far valere questo diritto. Il governo, da parte sua,
deve porre fine a questa immigrazione illegale e garantire l cittadinanza a chi
ne ha diritto.
DOMANDA: Lei sa bene che è difficile
dimostrare, per chi non ha documenti, che risiede in Birmania da più
generazioni. Inoltre il governo non riconosce a priori i Rohingya come gruppo
etnico, ma li considera bengalesi, quindi cittadini del Bangladesh. Come vede,
è una strada a vicolo chiuso.
ASSK: E’
per questo che chiediamo che ci sia un confronto non solo all’interno della
Birmania, ma anche con il Bangladesh.
DOMANDA: I discorsi enunciati in questo tour
sono tutti focalizzati alla necessità di emendare la costituzione del 2008 che
vieta a cittadini come lei, che ha parenti con passaporto straniero, di
candidarsi alle presidenziali del 2015. Non pensa che ci siano punti ben più
importanti da emendare, come il 25% dei seggi riservati ai militari nel
parlamento o come la possibilità che il comandante delle Forze Armate possa, in
caso di necessità, prendere il comando del governo?
ASSK: Sì e
no. Per la percentuale dei seggi riservati ai militari non penso che sia un problema.
Ho sempre detto che i militari devono essere inseriti nel contesto esecutivo e
legislativo del paese. Nei limiti di una democrazia, naturalmente. Non mi
preoccupa il 25% dei seggi riservati ai militari nel parlamento quanto,
piuttosto, il pericolo che il comandante delle Forze Armate possa arrogarsi il
diritto di amministrare l’intero governo; ebbene, quello, invece, è sicuramente
un punto di pericolo che rischia di arrestare le riforme. Così come la mancanza
di un potere giudiziario indipendente dal potere legislativo ed esecutivo.
Capisco anche che la mia insistenza sull’emendamento per la candidatura presidenziale
può essere intesa come una battaglia personale. Ma non sono io che l’ho
iniziata: è stata la precedente giunta militare che ha disegnato una
costituzione nazionale prendendo come misura la necessità di allontanare la mia
persona da ogni forma di governo. Io mi batto non per la mia candidatura, ma
perché il popolo abbia il diritto costituzionale di scegliere liberamente la
persona che andrà a rappresentarlo.
Mi permetta
anche di evidenziare che l’emendamento della costituzione è solo il terzo punto
del mio programma dopo il rispetto delle leggi e la fine delle guerre civili.
Sono una politica e come tale ho degli obiettivi. Uno di questi è dare al mio
popolo la democrazia. Questo è il senso dell’emendamento da me richiesto:
permettere al popolo di decidere chi lo rappresenta.
DOMANDA: Quale sarà il suo programma nel caso
possa candidarsi?
ASSK: Non
voglio fare promesse che non posso mantenere. Non voglio dire che, se diverrò
presidente e il mio partito, la Lega Nazionale per la Democrazia (LND) porterà
pace e benessere per tutti. Abbiamo sempre detto che faremo del nostro meglio e
ciò che prometto è esattamente il meglio che posso offrire. I tre punti
principali del mio programma sono tre: far rispettare le leggi, porre fine alle
guerre civili e emendare la costituzione.
DOMANDA: Il secondo punto sarà sicuramente il
più impegnativo. Neppure il cosiddetto governo democratico che ha retto la
Birmania tra il 1947 e il 1962 è riuscito a porre termine alle guerre etniche.
Aung San Suu Kyi (Photo Reuter/Lisa Aserut) |
ASSK: Il
grosso problema è che i regimi militari ci hanno fatto perdere la capacità di
dialogare e di mediare. Sotto lo SLORC prima e l’SPDC dopo, non c’è mai stata
libertà di parola o di scelta. Tutto veniva imposto dall’alto, anzi, direi da
una ristretta cerchia di persone. Oggi, con le riforme in atto, dobbiamo
riacquistare la capacità di dialogare. Ma questo significa anche sapere che non
si potrà mai ottenere il 100% di ciò che si chiede.
DOMANDA: Le riforme in atto dal 2010 hanno già
portato a notevoli cambiamenti in Myanmar. Oggi ci sono meno di 100 prigionieri
politici nelle prigioni birmane, quando solo tre anni fa erano più di 2.000.
Secondo lei c’è ancora la possibilità che i militari possano riprendere il
potere e arrestare il processo democratico?
ASSK:
Certamente. E’ per questo che ho chiesto anche all’Italia di appoggiarci nella
strada verso la democrazia. Penso che vi siano frange all’interno del Tatmadaw
(le Forze Armate, ndr) che si oppongono alle riforme.
DOMANDA: Chi potrebbe essere un partner fidato
in questa transizione democratica? La Cina, gli Stati Uniti, l’India, l’ASEAN?
ASSK: La
Birmania ha sempre avuto rapporti molto stretti ed amichevoli con la Cina e,
personalmente, vedo gli investimenti cinesi come un’opportunità per il mio
paese. Naturalmente, come ho sempre detto, bisogna che siano investimenti non
finalizzati ad esclusivo vantaggio di un solo paese o di una classe sociale.
Penso sia questa la sfida che andremo ad affrontare nel futuro.
DOMANDE: Lei, sin dal primo comizio tenuto alla
Shwedagon nel 1988 ed a cui ero presente, ha sempre dichiarato di avere un
immenso affetto per i militari, sostenendo che è indispensabile che il Tatmadaw
entri a far parte della vita sociale della nazione. Queste sue dichiarazioni,
ripetute oggi, sconvolgono non poche persone che l’hanno sostenuta. Sono loro
che non hanno capito nulla delle sue idee o è lai che ha cambiato le idee?
ASSK: Direi
che siamo più vicini alla prima risposta. Sono sempre stata convinta che i
militari devono lavorare stretto contatto con la legislatura e l’esecutivo. Io
ha sempre avuto un affetto particolare per i militari e chi si scandalizza
quando mi sente dire questo, rispondo che non ha capito nulla del mio pensiero.
Non ho mai cambiato idee nei confronti dei militari e anche io mi stupisco di
come molta gente inorridisca quando affermo di avere grande affetto per i
militari. Ma dico semplicemente ciò che ho sempre detto da 25 anni a questa
parte. Lo ripeto, ho sempre avuto grande rispetto per chi indossa una divisa.
Tranne, ovviamente, per alcune persone. Ma sono un’esigua minoranza.
Copyright ©Piergiorgio Pescali
Nessun commento:
Posta un commento