Non dimenticare la storia


Als die Nazis die Kommunisten holten, habe ich geschwiegen;
ich war ja kein Kommunist.
Als sie die Sozialdemokraten einsperrten, habe ich geschwiegen;

ich war ja kein Sozialdemokrat.
Als sie die Gewerkschafter holten, habe ich nicht protestiert;

ich war ja kein Gewerkschafter.
Als sie die Juden holten, habe ich nicht protestiert;

ich war ja kein Jude.
Als sie mich holten,
gab es keinen mehr, der protestierte.


Quando i nazisti vennero per i comunisti, io restai in silenzio;
non ero comunista.
Quando rinchiusero i socialdemocratici, rimasi in silenzio;
non ero un socialdemocratico.
Quando vennero per i sindacalisti, io non feci sentire la mia voce;
non ero un sindacalista.
Quando vennero per gli ebrei, non protestai;
non ero un ebreo.
Quando vennero per me, non era più rimasto nessuno che potesse far sentire la mia voce.

(Emil Gustav Friedrich Martin Niemöller; Lippstadt, 14 gennaio 1892 – Wiesbaden, 6 marzo 1984)



S-21 - Nella prigione di Pol Pot

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S-21; un romanzo storico, una narrazione viva e potente che porta il lettore in una struttura detentiva istituita dal regime degli Khmer Rossi, una prigione da cui pochi sono tornati, seppur segnati nel corpo e nello spirito, vivi.

IL CUSTODE DI TERRA SANTA - un colloquio con padre Pierbattista Pizzaballa

IL CUSTODE DI TERRA SANTA - un colloquio con padre Pierbattista Pizzaballa
FESTIVAL FRANCESCANO 2014 - Rimini, piazza Tre Martiri,SABATO 27 SETTEMBRE - ORE 15.00 Presentazione del libro Il Custode di Terra Santa

INDOCINA - Un libro, una saggio, una guida per chi vuole approfondire

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Myanmar - Aung San Suu Kyi in Italia (Ottobre 2013)

Aung San Suu Kyi si appresta a visitare l’Italia. E’ un evento che, al di là della caratura del personaggio, premio Nobel per la pace 1991, indica quanto il Myanmar si sia saldamente avviato verso riforme politiche e sociali che, appena tre anni fa, sembravano impensabili da raggiungere. Il plauso delle democrazie occidentali, Stati Uniti in testa, si è tramutato in aperta collaborazione economica, tanto che le sanzioni europee e statunitensi in vigore dagli anni Novanta, oggi sono sospese, se non addirittura eliminate. L’improvvisa ventata di democrazia ha trovato, paradossalmente, una classe politica più preparata di quanto lo sia la popolazione. Dei duemila prigionieri politici denunciati dalle organizzazioni dei diritti umani nel 2010, oggi ne rimangono in carcere meno di 100. Personaggi di punta dell’opposizione, come Ko Ko Gyi e Zarganar, sono stati liberati e, a differenza di quanto accadeva nel passato regime, chiamati a partecipare al processo di democratizzazione. La stessa Aung San Suu Kyi è attiva protagonista della vita politica e parlamentare della Camera Bassa. I media non sono più censurati ed il famigerato Odine 2/88, che vietava a più di quattro persone di riunirsi pubblicamente, cancellato.
Mentre le trasformazioni politiche procedono a ritmo serrato, quelle economiche e sociali, ostacolate le prime da una goffa burocrazia e le seconde da un mosaico etnico i cui tasselli difficilmente si riescono ad incastrare, non  riescono a stare al passo con la liberalizzazione. Il risultato è che oggi il paese è scosso da una serie di fermenti sociali senza precedenti dimostrando ciò che molti avevano paventato da tempo: l’improvvisa liberalizzazione della società, rischia di stravolgere l’intero sistema, portando il paese verso una pericolosa spirale di caos.
Ne sono un esempio le manifestazioni popolari in atto a Monywa, dove sorge una delle miniere di rame più grandi al mondo ed in cui i lavoratori, da decenni, sono sfruttati in modo disumano. Gli abitanti della zona, insorti per contrastare l’ampliamento delle miniere, hanno subito una brutale e sanguinosa repressione da parte della polizia. E le fragili tregue con le minoranze etniche, in particolare con i Kachin, il cui accordo è stato firmato poche settimane fa, sono più frutto di risvolti economici che di effettiva volontà di pace. Il gasdotto appena inaugurato, che ogni anno porterà in Cina 12 miliardi di metri cubi di gas naturale, le innumerevoli miniere di giada e rubini e le foreste di tek non potrebbero essere sfruttati appieno se sul territorio perdurasse lo stato di guerra.
Più drammatica è la questione degli 800.000 Rohingya islamici che vivono al confine con il Bangladesh. Non riconosciuti dal governo centrale, che si ostina a considerarli Bengalesi, e discriminati dalla maggioranza Rakhine di religione buddista, i Rohingya vivono in uno stato di assedio permanente. Il terrore di pogrom ha indotto migliaia di loro a cercare rifugio in Bangladesh, Tailandia, Malesia, Indonesia venendo regolarmente respinti o, nel migliore dei casi, internati in campi temporanei. Di fronte a questa escalation Aung San Suu Kyi ha dato prova di poca sagacia giustificando il suo rifiuto nel condannare le violenze perpetrate dai buddisti col fatto che i Rohingya non sono rappresentati in parlamento. Le critiche, per questa improbabile scusante, sono piovute non solo dall’interno del paese, ma anche dall’esterno, facendo infuriare la Lady, per troppo tempo abituata a ricevere solo elogi e, quindi, poco avvezza ai giudizi negativi. Neppure la decisa condanna di Tomàs Ojea Quintana, rappresentante speciale dell’ONU per i Diritti Umani, e di organismi come Medici Senza Frontiere, hanno indotto Suu Kyi a fare marcia indietro. Nel 2013 le violenze etnico-religiose sono dilagate in altre parti del paese inducendo gli elementi più estremisti buddisti a fondare organizzazioni xenofobe e intolleranti come il Movimento 969, promosso da monaci influenti come Wirathu e Wimala. Rispecchiando la tradizione di superstizione che permea ogni atto sociale e politico della vita birmana, 969 rappresenta, nella numerologia astronomica, gli speciali attributi del Buddha ed i suoi insegnamenti. I leaders del movimento chiedono il boicottaggio delle attività commerciali ed il divieto dei matrimoni misti, ipotizzando un fantomatico complotto jihadista per convertire il paese e prendere il potere.
Il conflitto ha già valicato i confini nazionali, inducendo molti stati islamici, tra cui il turbolento Pakistan, a chiedere a Thein Sein di impegnarsi a proteggere la comunità islamica che, raggiungendo il 4% della popolazione, è il secondo gruppo religioso del Myanmar.
Nel suo tour europeo, Aung San Suu Kyi ha cercato sempre di glissare sulla questione Rohingya: il tema ricorrente dei suoi discorsi è stato la riforma costituzionale. Presentata giustamente come proposta per democratizzare il paese (secondo l’attuale sistema il 25% dei seggi parlamentari è riservato ai militari), in realtà gli emendamenti chiesti dalla leader dell’opposizione hanno un obiettivo più personale. La costituzione del 2008 (così come quella democratica del 1947 a cui spesso la stessa Suu Kyi si riferisce come esempio da seguire) vieta a cittadini birmani che hanno parenti con passaporto straniero di occupare cariche presidenziali. Con le elezioni del 2015 che si stanno avvicinando, Aung San Suu Kyi, i cui due figli hanno cittadinanza britannica, rischierebbe di restare esclusa dalla candidatura alla più alta carica del paese.
Il che, nonostante tutti i limiti politici che presenta la Lady, sarebbe un danno per lo stesso Myanmar.

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