«Sogno un Tibet all’interno della Cina in cui sia possibile vivere in un unico Paese dove coesistono due sistemi. Il Tibet, nell’interesse degli stessi tibetani, deve rimanere con la Cina». La voce del Dalai Lama è calma e ferma quando pronuncia parole che cinquant’anni fa, quando fuggì da Lhasa per rifugiarsi in India, non avrebbe mai pensato di proferire. Da quel 17 marzo 1959 la Storia ha visto crollare ideologie che sembravano inossidabili, l’economia ha conquistato mercati un tempo creduti irraggiungibili, la politica ha riformato alleanze tra acerrimi nemici. I tibetani stessi sono cambiati e, nonostante tutti i proclami di indipendenza, indietro non si vuole tornare. Il Tibet dei primi decenni del Novecento, ben descritto dalla scrittrice Alexandra David-Néel, era ben lontano da quell’esempio di tolleranza e di prosperità culturale propagandato in Occidente. Il benessere economico portato da Pechino, però, non è bastato a creare consenso nella popolazione tibetana: dopo le distruzioni della Rivoluzione Culturale, l’enorme flusso di denaro giunto in Tibet, è servito soprattutto ad arricchire i monasteri per incentivare il turismo. Anche a Lhasa, lo spirito imprenditoriale han e hui, le due principali etnie cinesi e musulmane immigrate nella provincia dopo gli anni Ottanta, ha prevalso sui tibetani. I quali, un anno fa, in occasione delle manifestazioni per ricordare l’anniversario delle rivolte del 1959, si sono vendicati devastando ristoranti, negozi e hotel con insegne cinesi. Da quegli eventi, il dialogo con il Dalai Lama, che continuava dagli Anni Novanta, si è interrotto, creando conflitti anche all’interno delle organizzazioni di esuli tibetani a Dharamsala. Le critiche alla politica del Dalai Lama si alzano sempre più prepotentemente, specialmente tra i giovani, raggruppati attorno a movimenti come il National Democratic Party, il Tibetan Youth Congress o lo Students for a Free Tibet. Alla richiesta di autonomia avanzata dal leader religioso, questi contrappongono l’indipendenza dell’intero Tibet etnico, un’area che, oltre a comprendere la Regione Autonoma del Tibet, ingloba anche le prefetture del Qinghai, Gansu, Sichuan e Yunnan abitate da etnie tibetane. Una richiesta che nessun governo appoggerebbe, dato che creerebbe una serie di rivendicazioni etniche in tutte le nazioni asiatiche, rischiando di stravolgere il delicato equilibrio geopolitico dell’intero continente. Ed è lo stesso Dalai Lama a proporre una nuova via per il dialogo: «Per trovare una soluzione ognuno deve cedere qualcosa e al tempo stesso dobbiamo fidarci l’uno dell’altro. Un Tibet autonomo, inoltre, è già esistito tra il 1950 e il 1959, quando il Presidente Mao sovrintendeva il processo di integrazione. E’ a quel Tibet che guardo.»
© Piergiorgio Pescali
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