Il 10 marzo 1959, a Lhasa migliaia di tibetani scesero in piazza a manifestare contro la presenza cinese nella loro regione. Sette giorni più tardi, il 17 marzo, il Dalai Lama fuggì con i suoi consiglieri, riparando nell’India di Nehru, dove fu accolto con il massimo onore. Il cinquantesimo anniversario di tali eventi, oltre a rappresentare un appuntamento cruciale sia per i tibetani che per la Cina, sancisce la fondatezza del famoso proverbio: siediti lungo il fiume e vedrai passare il cadavere del tuo nemico. Le acque che per cinque decenni sono fluite lungo il corso della Storia, hanno annacquato le ideologie che dividevano il mondo, facendo crollare non solo muri fisici, ma anche quelli diplomatici. La Cina di oggi non è più quella del 1959: il mercato l’ha prima inglobata per poi essere a sua volta ingabbiato dalla Cina stessa. I vecchi nemici di ieri, Stati Uniti e India, oggi si sono trasformati in partner con cui tessere rapporti commerciali e sociali. Sul lato opposto, i tibetani, che cinquant’anni fa rappresentavano un mezzo per punzecchiare l’Armata Rossa, oggi sono poco più che una fastidiosa presenza. Fastidiosa per l’India, che si trova 120.000 stranieri amministrare un’intera regione come fosse una zona franca, suscitando le proteste di cittadini i cui affari sono andati a rotoli. I numerosi turisti, stranieri e tibetani, che giungono a Dharamsala, infatti, preferiscono acquistare souvenirs, cibo, dormire presso negozi, ristoranti e hotel gestiti da tibetani piuttosto che indiani. Ma sono fastidiosi anche per la nuova amministrazione statunitense: in un periodo di crisi come quello attuale, Obama non vuole certo compromettere i lucrosi affari con la potente economia cinese difendendo una causa diplomaticamente irraggiungibile come l’indipendenza del Tibet. Del resto basta andare a Dharamsala e parlare con qualunque rappresentante del governo tibetano in esilio per individuare i contrasti che frammentano la comunità. Il Dalai Lama, con la sua politica moderata di autonomia e di dialogo con Pechino, è sempre più isolato. La simpatia dei giovani va più ai movimenti indipendentisti che al leader spirituale e c’è qualcuno che prospetta addirittura la rifondazione del Chusi Gangdruk, il movimento di guerriglia nato nel 1959 e attivo fino al 1974 nella valle di Lo Mathang, in Nepal. Partiti e organizzazioni come il National Democratic Party, il Tibetan Youth Congress o lo Students for a Free Tibet, criticano sempre più apertamente il Kashag, il governo tibetano, colpevole, a loro dire, di non aver raggiunto nessun obiettivo in questi cinquant’anni. Il problema è che nessuno stato, né asiatico né occidentale, sarebbe disposto ad appoggiare le loro richieste. Diplomaticamente parlando, gli indipendentisti tibetani si comportano con la stessa identica miopia con cui si muoveva il governo del Tibet nella prima metà del Novecento. Anzi, ancora peggio, visto che le richieste avanzate dai secessionisti non si limitano alla Regione Autonoma, ma si allargano all’intero Tibet etnico, un’area che si estende su una superficie di due milioni e mezzo di chilometri quadrati, pari al 25% dell’intera Cina. Un’ipotetica indipendenza tibetana scatenerebbe una serie di rivendicazioni etniche in tutte le nazioni asiatiche, in particolare India e Cina, rischiando di stravolgere il delicato equilibrio geopolitico dell’intero continente. Quale nazione al mondo si assumerebbe la responsabilità di un tale scombussolamento?
© Piergiorgio Pescali
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