All’alba i freddi raggi del sole non riescono a disperdere la coltre di smog mista all’umidità che avvolge Shanghai. Lungo il Bund, alcuni gruppi di giovani e di anziani praticano il tai ji e il qi cong, incuranti del vento gelido che sferza il loro volto. Mi fermo a guardare compiaciuto questo angolo di Cina millenaria, ma poco distante uno stereo inizia a rovesciare le note di un cha-cha-cha, al cui ritmo si dimenano alcuni pensionati. I praticanti di arti marziali continuano imperterriti a snodare il loro corpo, incuranti degli assordanti frastuoni delle musiche occidentali e del traffico, che alle sei del mattino, è già sostenuto. E’ la Cina che cambia, trascinando con sé due mondi all’apparenza diversi e inconciliabili tra loro. Una trasformazione che risulta più evidente nell’architettura di una Shanghai sempre più divisa tra antico e moderno. Sino a soli dieci anni fa, il fiume Hwangpu era il limite estremo della metropoli, oltre il quale, a oriente, iniziava la campagna, con i suoi campi di riso e di grano. Oggi Pudong, letteralmente “a est del fiume”, è la nuova area industriale e residenziale della città, costata 40 miliardi di dollari, dove ogni giorno si riversano centinaia di migliaia di operai, impiegati e uomini d’affari. Stando appoggiato al parapetto del lungofiume la vedo, Pudong, con i suoi biglietti da visita oramai famosi in tutto il mondo: il Jin Mao Tower, 420 metri di cemento e acciaio sospinti verso un cielo ancora leggermente purpureo e la mastodontica Oriental Pearl TV Tower, alta 457 metri. Dietro a me la Shanghai vecchia: il Peace Hotel, la Casa Doganiera e il consolato russo. Edifici storici, ma sempre più isolati da un contesto architettonico e culturale in via di mutamento, che sottintende anche un radicale stravolgimento di un’intera filosofia di vita economica e, in ultima analisi, politica.
Non esiste in cinese una traduzione esatta della parola filosofia, ma si propende ad assegnare a questa idea l’ideogramma dao¸ via, la cui radice indica movimento. E la base del pensiero cinese, della sua politica, del suo continuo mutare è questo dao¸ che si contrappone al pensiero occidentale che ruota, invece, attorno ad un unico perno fisso: l’Essere Supremo, il Logos, Dio. E’ un concetto basilare per comprendere ciò che accade ed è accaduto in Cina in questi ultimi decenni: la rivoluzione comunista, quella culturale, la drastica virata di Deng Xiaoping sintetizzata dal concetto “un Paese, due sistemi”, impensabile in Occidente.
E questi cambiamenti sono iniziati tutti da qui, Shanghai. Da 150 anni, la città è la chiave con cui si è periodicamente forzata la serratura del pianeta Cina, innestando nel Paese nuovi modelli di sviluppo umano e sociale. E’ proprio da qui, più che da Pechino, che bisognerebbe iniziare ogni visita della Repubblica Popolare per capire quale potrà essere il futuro di questo Paese, grande quanto un intero continente. A Shanghai è nato il Partito Comunista, si è iniziata la Rivoluzione Culturale e prima di raggiungere i massimi vertici del governo, Jiang Zemin è stato a capo della sezione locale del Partito e sindaco della città. Infine, Shanghai è stata una delle prime metropoli in cui è scomparsa, dal vocabolario del cinese medio, la parola tong zhi, compagno. Ci si ostina a pensare alla Cina come ad un Paese comunista. In realtà il comunismo, o per meglio dire quella forma tutta particolare di comunismo che è il maoismo, è vivo solo nelle parole.
-E’ buffo parlare di Piani Quinquennali in un’economia di mercato.- mi dice Alessandro Arduino, responsabile dell’Ufficio Economico del Consolato Italiano di Shanghai. Questa ambiguità è il segno che contraddistingue Shanghai sin dagli anni Venti, quando la città era considerata, a secondo delle inclinazioni ideologiche, la Parigi d’Oriente o la maison tolérèes, la Prostituta d’Oriente, per il fatto di essere stata “venduta” agli stranieri dopo le Guerre dell’Oppio. Le tensioni sociali generate da questa dicotomia, che portarono all’eccidio del 1927 e al successivo sviluppo della rivoluzione cinese, rischiano di ripercuotersi oggi con l’entrata del Paese nel WTO.
-Non bisogna dimenticare che la Cina è all’80% una realtà agricola. Quando i dazi, dal 2001 al 2005 verranno abbassati per via dell’adesione al WTO, il mercato locale sarà inondato da prodotti alimentari statunitensi e europei che piegheranno l’economia contadina.- afferma Alessandro Arduino. Ma questo non sembra interessare Washington, principale sostenitore della politica del WTO. Qualche anno fa, la Praxair, una delle maggiori società chimiche degli States, si vantava, con un frasario da Prima Rivoluzione Industriale, di aver trasformato campi di riso in fabbriche moderne. L’approccio devastante della cultura ipertecnologica statunitense in un mondo essenzialmente rurale, non tiene debitamente conto dei disastri sociali che questa può produrre non solo in Cina, ma in tutta la ragione asiatica.
Eric Randall, capo analista di una società finanziaria USA, mi decanta il lavoro di “ristrutturazione”, così lo chiama, di un intero quartiere a sud di Huaihai Zonglu. –Al posto delle vecchie case sorgeranno uffici, grandi magazzini, ristoranti, negozi di gran classe.-
-E gli abitanti?- chiedo incuriosito. –Tutti traslocati. Il governo ha dato loro appartamenti a Pudong con un affitto bassissimo.- Il giorno dopo vado ad osservare di persona: centinaia di famiglie fanno appena in tempo a caricare i pochi mobili sui camion messi a disposizione dal comune di Shanghai, che già le ruspe sventrano gli edifici coloniali. Ripasso una settimana più tardi: mentre i lavori di sbancamento non sono ancora terminati, già altre squadre di operai, sono al lavoro per costruire nuove palazzine. Distruggere per ricostruire, era uno dei motti di Mao Zedong. Qui lo si applica alla lettera. –La mia famiglia ha abitato qui per generazioni e generazioni, ed ora ci dicono che dobbiamo andarcene. Perché?- chiede incredula una vecchia. Poco lontano un comitato di quartiere innalza cartelli di protesta contro la nuova politica comunale. La risposta a tutto questo è semplice: le aride cifre che fanno all’economia di Shanghai uno sviluppo annuo del 10,2%, non possono tenere conto delle esigenze di poche migliaia di persone. E per mantenere questi livelli di incremento, il sindaco tecnocrate deve fissare continuamente nuovi traguardi. Nel futuro della città c’è il grande hub informatico e finanziario che, con l’apporto della costruzione del nuovo porto entro il 2005, proietterà Shanghai al centro dell’economia asiatica. Il tutto trainerà un’economia destinata a divenire il nuovo colosso del XXI secolo. L’Italia, una delle prime nazioni ad essere presente sul territorio, ha perso le posizioni di vantaggio che aveva e adesso arranca faticosamente dietro ai colossi europei e statunitensi. Yang Yongdong, ingegnere dell’ufficio di Shanghai della Siad Macchine Impianti di Bergamo, afferma che il segreto per restare in Cina è quello di non pensare di poter riciclare nel Paese tecnologia obsoleta in Occidente. –Le aziende italiane hanno una buona reputazione in Cina proprio perché, a differenza di molte industrie concorrenti statunitensi o europee, garantiscono tecnologia all’avanguardia e un rapporto più umano e paritario con il personale.- mentre Alessandro Arduino invita l’imprenditoria italiana all’associazionismo per un mercato troppo vasto per la tipologia famigliare della piccola e media impresa italiana. Ma perché l’Italia possa entrare a buon diritto tra il novero dei maggiori Paesi commerciali con la Cina occorre soprattutto la presenza delle istituzioni sul territorio. E se il Consolato Italiano di Shanghai è particolarmente attivo in questo senso, l’ICE, l’Istituto per il Commercio Estero latita: tutte le sollecitazioni e richieste di incontro inviate all’ufficio di Shanghai, sono state lasciate senza risposta. Non è un buon biglietto da visita per chi vuole investire in Oriente.
© Piergiorgio Pescali
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