Myanmar o Birmania?
La scelta su quale termine utilizzare per identificare questo paese del Sud East Asia, non è di poco conto, visto che da tempo la diatriba è sfociata nel campo politico.
Per l’opposizione guidata da Aung San Suu Kyi è alla Birmania che ci si dovrebbe riferire, mentre ufficialmente la nazione è stata denominata Myanmar dopo che nel 1989 la Giunta Militare ha cambiato i toponimi principali di tutte le coordinate geografiche del paese: non più Rangoon, ma Yangon, non più Irrawaddy, ma Ayerwaddy, non più Bassein, ma Pathein, Bagan anziché Pagan ed infine non più Birmania, ma Myanmar.
Birmania è la traslitterazione, storpiata dai colonialisti britannici, di Bamar, la principale etnia della nazione, quelli che noi chiamiamo birmani. Parlare di Birmania quindi, oltre che perpetuare un retaggio coloniale, limita anche il concetto di rappresentanza etnica presente sul territorio.
Myanmar, invece, oltre ad assumere una maggiore valenza di democrazia etnica, che trova punti di concordia anche tra le popolazioni periferiche non appartenenti all’etnia birmana, è anche il toponimo che distingueva il Paese sin dal XIII secolo. Fu utilizzato anche da Marco Polo ne Il Milione quando parla (forse senza averla mai visitata) di Bagan.
Buddhismo e Tatmadaw
La vita del Myanmar non è mai stata tranquilla. Ancor prima che la Union Jack venisse ammainata nel 1948, il germe dell’assassinio politico si insinua nella sua classe dirigente con l’uccisione di Aung San, il principale artefice dell’affrancamento dal giogo coloniale.
Aung San lascia una doppia eredità destinata a creare forti lacerazioni in seno alla società del Paese:
• Un’eredità militare, il Tatmadaw, le Forze Armate birmane da lui co-fondate.
• Un’eredità filiale, allora nata da appena due anni, Aung San Suu Kyi.
Appare inoltre chiaro che per governare la Birmania (così fu chiamata la nazione all’indomani dell’indipendenza), è necessario godere dell’appoggio dei due eserciti del Paese: l’esercito armato, quello in divisa kaki e l’esercito dei monaci buddisti, in divisa arancione.
La perdita di appoggio di una sola delle due componenti, avrebbe messo in serio rischio qualunque tipo di governo si fosse instaurato. Una legge simbiotica che ancora oggi rimane valida.
Il Tatmadaw, infatti, secondo molti analisti, è riuscito a rimanere in sella al potere per così tanto tempo nonostante l’odio popolare, proprio grazie al buddismo.
Predicando le Quattro Nobili Verità, e identificando la vita di questo mondo con il dukkha, in Occidente tradotto in modo semplicistico come “dolore”, la religione buddhista invita conseguentemente ad eliminare le cause di questa negatività: il desiderio.
Appare dunque evidente che il fedele, per raggiungere la pace del Nirvana, è invitato a vivere la propria vita estraniandosi da ciò che procura dolore oppure, come i santi o i martiri cristiani, accettare anche il dolore al fine di elevare il proprio spirito.
Non dobbiamo neppure dimenticare il forte collegamento che la dottrina buddista ha con l’astrologia, che in Myanmar è divenuta parte integrante (a volte preponderante se non decisiva) delle scelte politiche.
E’ noto a tutti l’importanza che riveste il numero nove per i generali, ma anche l’opposizione, che tanto sbeffeggia i militari per questo loro attaccamento alla numerologia, non è da meno.
Se il nove, come abbiamo detto è il “numero militare”, l’otto (che precede il nove), è il “numero dell’opposizione”. Non per nulla 108 sono i grani del rosario buddista e 8 sono le vie che conducono all’estinzione del dukkha. E così ecco che gli studenti scelgono una data e un’ora precisa per iniziare le manifestazioni contro Ne Win: l’8 agosto (ottavo mese dell’anno) 1988 alle ore 8.08. Ancora oggi la generazione di studenti reduce da queste rivolte è raggruppata in un organizzazione identificata con una teoria di otto: Gruppo 88
Da Aung San a Ne Win
Tra il 1947 e il 1962 assistiamo alla cosiddetta “fase democratica”, caratterizzata dallo sviluppo delle relazioni internazionali (in particolare con Cina, India, USA, Gran Bretagna) e dal pluralismo politico.
Ma nasce immediatamente quello che sarà uno dei problemi principali del Paese: il dramma etnico.
Le nazioni etniche ribadiscono ai futuri dirigenti del Paese le promesse di indipendenza fatte dai britannici alle popolazioni Karen e Mon. A queste recriminazioni viene ribattuta l’intransigenza mostrata da Aung San durante la fase immediatamente pre-indipendenza, nel non voler considerare un sistema federale veramente capace di dare autonomia culturale alla nuova nazione. Parlare di Stato Kachin o di Stato Karenni all’interno di una eventuale federazione, non solo è assolutamente proibito, ma addirittura pericoloso. E quando la stampa comincia a criticare l’ostracismo di Aung San verso l’apertura politica etnica, ecco che lui inveisce contro “alcuni giornali, che pur essendo a perfetta conoscenza dei fatti, scrivono quello che vogliono. Ad esser franchi, sono come testicoli di capra”. Parole dure che non fanno ben sperare in una evoluzione in senso democratico, anche in una Birmania indipendente governata dall’eroe nazionale.
Infine, a tutti questi problemi si aggiunge anche la fuoriuscita volontaria dei comunisti dalla Lega Antifascista. Inizia qui la lunga guerriglia rivoluzionaria del Partito Comunista Birmano (PCB) che si protrarrà fino alla fine degli anni Novanta.
E’ in questo caos sociale che un generale, compagno di Aung San, Ne Win, prende il potere. Per la verità sale al vertice del governo pregato a gran voce dall’allora Primo Ministro U Nu, che spera di ristabilire un ordine sociale compromesso. In seguito, però, Ne Win rifiuta di rimettere il potere ai civili inaugurando il cosiddetto socialismo birmano, un sistema politico-economico e culturale con vaghe somiglianze col socialismo buddhista che lo strambo e inaffidabile sovrano Norodom Sihanouk sta imponendo in Cambogia.
Cina, India e Stati Uniti
Nel frattempo, la Rivoluzione Culturale cinese iniziata nel 1966, rafforza il PCB e la sua guerriglia, mentre nelle file etniche emergono i membri del Kuomintang, fuggiti dalla Cina dopo la presa di potere di Mao e che hanno trovato rifugio sicuro nelle montagne dello stato Shan. La coltivazione d’oppio, fino ad allora essenzialmente limitata al mercato locale, si internazionalizza. Le lotte etniche si intrecciano con gli interessi nazionali, le ideologie vengono a patti con le istanze nazionalistiche, formando una convulsa commistione di comunisti, Kuomintang, etnie che, pur mantenendo specificità ideologiche, si alleano contro il Tatmadaw birmano.
Nel complicato panorama geopolitico si inserisce anche la guerra del Vietnam e la teoria del domino di McNamara. Interessi USA e birmani convergono nel fronteggiare la Cina e il pericolo comunista. Anche l’India, impegnata nelle guerre di frontiera con l’Armata Rossa, si inserisce in questa alleanza, influenzando pesantemente la politica birmana. Non è certo un caso che la rivoluzione toponomastica del 1989 precede di pochi anni quella indiana.
Ma se internazionalmente Ne Win trova sostenitori, all’interno la situazione economica è disastrosa. La doppia demonetarizzazione voluta dal generale (forse suggeritagli dal suo oracolo privato in base a calcoli numerologici), crea malcontento tra gli studenti che nel marzo 1988 iniziano a scendere in piazza.
8.8.88
E’ l’anno della svolta nella politica birmana.
Per sei mesi le strade delle principali città vedono sfilare cortei studenteschi a cui si aggiungono anche gli operai delle fabbriche invitati dai comunisti a scioperare. Gli scontri con la polizia, le forze paramilitari e il Tatmadaw sono violentissimi. In sei mesi si stima che circa 10.000 manifestanti siano uccisi.
Sono rivolte assai differenti da quelle a cui abbiamo assistito nello scorso autunno. Innanzitutto quelle del 1988 sono rivolte spontanee senza un’organizzazione centralizzata, sono rivolte politiche (campeggiano i ritratti di Aung San) in cui i monaci partecipano defilati ed in secondo piano.
Possiamo dire che sono esattamente l’opposto di quelle osservate nel 2007, nelle quali l’organizzazione monastica è assolutamente verticistica, dove le manifestazioni sono state preparate da tempo, in cui non si sono visti ritratti di politici e dove studenti e politici sono rimasti nell’ombra. Infine, a differenza delle manifestazioni del 2007, che hanno avuto l’appoggio anche organizzativo di associazioni estere, quelle del 1988 sono totalmente organizzate e preparate all’interno della Birmania.
Il ritorno di Aung San Suu Kyi
Ma il 1988 è anche l’anno in cui la figlia dell’eroe nazionale Aung San, Aung San Suu Kyi, torna in patria.
Torna dopo aver studiato in Inghilterra ed aver sposato un inglese con cui ha due figli. Torna ad accudire la madre morente.
La situazione che trova Aung San Suu Kyi la sconvolge a tal punto, che decide di proporsi come mediatrice tra i manifestanti ed il governo. Solo in seguito, dopo aver incassato il rifiuto dei vertici militari, decide di mettersi in gioco fondando con altri politici il National League for Democracy (NLD).
Il 20 luglio 1989 per Aung San Suu Kyi inizia la lunga serie di detenzioni che, inframmezzata da pochi mesi di libertà vigilata, perdura a tutt’oggi.
Per calmare le acque Ne Win si dimette e fonda lo SLORC, lo State Law and Order promettendo elezioni libere e democratiche. Viene favorita la nascita di centinaia di partiti, quasi tutti estremisti e contrari ai generali, sperando così facendo di disperdere i voti, mentre un solo partito rappresenta il governo della giunta militare.
Le elezioni del 1990
Dalle urne delle elezioni del 1990 non escono, però, i risultati programmati dallo SLORC.
L’NLD raggiunge una percentuale di voti altissima, forse non prevista neppure dagli stessi membri della Lega. Lo SLORC annulla il verdetto popolare, o meglio: afferma che le elezioni non erano dirette a decidere quale partito avrebbe formato il nuovo governo, ma per scegliere i delegati che avrebbero dibattuto il disegno della nuova bozza costituzionale ed iniziare la “road map”, la via per consegnare il Paese alla democrazia.
Il problema etnico e della democrazia
Ma dall’analisi del voto emerge un altro fatto altrettanto importante, da molti sorvolato: un 16% di voti etnici indipendentisti a livello nazionale. Questo significa che localmente queste forze politiche e, non dimentichiamolo, secessioniste, raggiungono anche percentuali maggioritarie assolute.
Se poi pensiamo che nelle aree tribali o etniche, la percentuale di votanti è stata nettamente inferiore alle zone centrali del Paese a maggioranza bamar, il peso di questo 16% diventa enorme e decisivo per la sopravvivenza della nazione.
Questo caleidoscopio di razze motivate da istanze centrifughe, mette a repentaglio non solo l’unità del Myanmar, ma la stessa sicurezza del Sud Est Asia e della Cina.
Nessuno vuole la destabilizzazione e la disgregazione del Myanmar.
Non lo vuole la Cina, che teme un coinvolgimento delle minoranze etniche sul suo territorio.
Non lo vuole l’India, che ha grossi problemi a contenere la guerriglia assamita con basi negli Stati Chin e Arakan birmani.
Non lo vuole neppure la Thailandia, che sta fronteggiando una crisi interna con i separatisti musulmani al sud e che è sempre stata accusata di discriminare le minoranze delle regioni settentrionali e tantomeno gli Stati Uniti, i quali vedrebbero crollare lo status quo regionale facendo riaffiorare lo spettro di una nuova guerra indocinese.
La necessità del Tatmadaw
Da questo appare evidente che per mantenere unita la nazione è indispensabile la presenza del Tatmadaw. Lo ha ammesso la stessa Aung San Suu Kyi la quale non vuole l’uscita dalla scena politica dei generali (pena la disgregazione del Myanmar), bensì una gestione militare del potere con la componente civile. Le manifestazioni che per una decina di giorni hanno movimentato le piazze europee e italiane chiedendo il completo defilamento del Tatmadaw, non hanno altro dimostrato la totale impreparazione dell’opinione pubblica nel comprendere il problema Myanmar.
Intransigenza e crollo delle speranze di dialogo
Ecco quindi che, di fronte al pericolo di una disgregazione nazionale, i generali cambiano rotta. Ne Win si defila, lasciando il posto al suo delfino, Khin Nyunt, la “faccia buona” del regime.
Khin Nyunt, capo del Military Intellicenge (MI), i Servizi Segreti Militari, è stato il militare più moderato e più aperto al dialogo con l’opposizione. Sembra che il Myanmar stia cambiando rotta tanto è vero che anche i rapporti con l’Occidente migliorano e si concludono numerosi accordi di pace con gran parte degli eserciti etnici.
Paradossalmente, proprio quando nel paese sembra aprirsi uno spiraglio, è Aung San Suu Kyi a non cogliere l’opportunità, perdendo l’occasione per implementare una svolta democratica.
Il conferimento del Premio Nobel per la Pace avvenuto nel 1991, convince l’ala dura dello SLORC che dietro l’NLD e Aung San Suu Kyi ci sono potenze straniere decise a interferire con il programma politico birmano.
Il fallimento dei colloqui tra l’NLD e lo SLORC, dal 1997 ridenominato SPDC, State Peace and Development Council forse su suggerimento di una delle agenzie di pubbliche relazioni a cui i generali hanno affidato la propria immagine internazionale, indebolisce la posizione dei rispettivi leaders: Aung San Suu Kyi espelle numerosi dirigenti che le rinfacciano la sua intransigenza, mentre Than Shwe, capo del Tatmadaw, coglie la palla al balzo e, nel 2004, arresta Khin Nyunt assieme a tutti i dirigenti dell’MI.
Dalle residenze dei capi dei servizi segreti vengono confiscati intere biblioteche di dossier sui generali del Tatmadaw, confermando l’ipotesi che Khin Nyunt stava predisponendo un repulisti contro la corruzione dilagante per eliminare gli elementi ostili al dialogo.
L’era Than Shwe
E con Than Shwe al potere, il Myanmar conosce il periodo più oscuro dell’era militare.
Stati Uniti e Unione Europea invitano all’embargo, mentre Aung San Suu Kyi giunge persino a chiedere ai turisti di non venire nel Paese, nonostante lei stessa, nel 1985 avesse scritto un libro dal titolo inequivocabile: Let’s Visit Burma (Burke Publishing Company).
Per rimpinguare le casse dello stato (e anche le loro), i generali iniziano a svendere le ricchezze naturali del Paese: India, Cina, Thailandia, Singapore, Malesia, Giappone, Sud Corea, Russia si fronteggiano, a volte duramente, per avere concessioni per lo sfruttamento del legname, gas naturale, pietre preziose.
Tramite Paesi terzi, anche aziende europee (tra cui molte italiane) continuano a violare l’embargo.
E se il boicottaggio rischia di spingere sempre più il Myanmar nelle braccia della Cina allontanando le prospettive di dialogo, i benefici economici che il paese riceve dal coinvolgimento di ditte straniere, vanno principalmente a rafforzare le Forze Armate.
Sanità, educazione, trasporti sono settori devastati non solo dall’incompetenza dei militari, ma anche dalla sempre più cronica mancanza di fondi, lasciando il compito di aiutare la popolazione civile a organizzazioni private, umanitarie (almeno le poche che hanno il permesso di lavorare nel Paese) e religiose.
Conclusioni
In Myanmar Aung San Suu Kyi è ancora agli arresti domiciliari, oramai protrattasi da 18 anni, seppure con qualche sporadica interruzione, durante le quali, comunque, la leader non è mai stata libera di girare per il Paese.
Than Shwe ha eliminato ogni militare che avrebbe potuto contrastare la sua visione politica, in particolare Khin Nyunt, l’unico in grado di stabilire un dialogo attivo con l’opposizione
Il boicottaggio verso il Myanmar ha spinto i generali a svendere le ricchezze naturali del Paese alle nazioni limitrofe (Cina, India, Thailandia), rimettendosi nelle braccia di Pechino
Di fronte alla situazione birmana cosa possiamo fare?
Purtroppo le dimostrazioni di appoggio alla causa dell’opposizione birmana che abbiamo visto nell’autunno 2007 dimostrano che pochi hanno sensibilità di quello che sta veramente accadendo nel Paese.
Chiedendo l’esclusione del Tatmadaw dalla vita socio-politica della nazione e il ritorno immediato alla democrazia, non si è fatto altro che comprovare la non conoscenza della situazione.
Del resto le magliette rosse che tanto hanno entusiasmato le folle, oggi sono ad ammuffire nei cassetti, dimostrazione che il tema Myanmar/Birmania non tocca più di tanto l’opinione pubblica.
Il Myanmar non ha un Dalai Lama da porre come icona al suo movimento d’opposizione. Ha “solo” una donna dal nome difficilmente pronunciabile che nessuno può vedere negli stadi o sentire di prima persona. E’ una donna lontana, segregata in una casa di cui è stata costretta a vendere tutti i mobili e suppellettili per poter sopravvivere senza accettare il denaro che l’SPDC le metteva a disposizione.
Cosa possiamo fare quindi?
Non dimenticare.
Non dimenticare il Myanmar o Birmania che dir si voglia, non dimenticare non solo Aung San Suu Kyi, ma anche tutti i membri dell’opposizione (NLD, comunisti, marxisti-leninisti, etnici, persone comuni) imprigionati nelle carceri birmane a cui il governo impedisce ogni contatto con l’esterno.
Possiamo aiutare direttamente il popolo del Myanmar aiutando le organizzazioni non governative presenti sul territorio informandoci attentamente sui progetti che svolgono e in che modo li svolgono. Non tutte le ONG o le associazioni sono uguali e la filosofia di interventi varia profondamente.
Se ne abbiamo la possibilità possiamo trasgredire quanto ci viene suggerito da Ang San Suu Kyi e visitare il Paese, non come semplici turisti, ma come testimoni di quello che sta accadendo, prendendo contatti con persone del luogo o con operatori umanitari che lavorano in Myanmar.
Poi, una volta tornati a casa, cominciare a vagliare la situazione e decidere cosa è meglio fare.
Ma manifestazioni estemporanee, magliette rosse, sfilate al grido di “siamo tutti birmani” sono inutili se poi non si continua a sostenere la causa.
© Piergiorgio Pescali
Bibliografia
Romanzi ambientati in Birmania
• Estremi orienti, di Amitav Gosh, Einaudi, 1998
• Il canto della libertà, di Karen Connelly, Edizioni Frassinelli, 2005
• L’accordatore di piano, di Daniel Mason, Mondadori, 2004
• Giorni in Birmania, di George Orwell, Mondadori, 2006
• Il palazzo degli specchi, di Amitav Gosh, Neri Pozza Editore, 2007
• All’ombra della pagoda d’oro – Tra i bambini di strada della Birmania, di Chiara Lossani, Rizzoli, 2008
Saggi sulla situazione birmana
• Birmania football club, di Andrew Marshall, Edizioni Instarlibri, 2004
• Il pavone e i generali, di Cecilia Brighi, Edizioni Baldini Castoldi, 2006
• Libera dalla paura, di Aung San Suu Kyi, Sperling & Kupfer Editore, 1996
• E la giungla piange, di Benno Roeggla, Athesia, 2006
• Lettere dalla mia Birmania, di Aung San Suu Kyi, Sperling & Kupfer Editore, 2007
• Verde e zafferano – A voce alta per la Birmania, di Carmen Lasorella, Bompiani Editore, 2008
• La mia Birmania, di Aung San Suu Kyi, Corbaccio Editore, 2008
Racconti di viaggio
• Sui sentieri dell’oppio, di Aldo Pavan, Feltrinelli Traveller, 2007
• Viaggio in Myanmar, di Mariateresa Sivieri, Cleup Editrice, 2007
Libri sul cristianesimo in Myanmar
• Su le orme del buon pastore, di Antonio Lozza – Edizioni PIME, 1971
• Tra guerre e superstizioni in Birmania, di Graziano Gerosa, Edizioni EMI, 1979
• Da Camaldoli alla giungla, di Cristoforo Mattesini, Edizioni EMI, 1980
• La città felice, di Livio Mondini, Edizioni EMI, 1989
• Lettere dalla Birmania, di Clemente Vismara, San Paolo Edizioni, 1995
• Prima del sole. L’avventura missionaria di padre Clemente Vismara (1897-1988), di Piero Gheddo, Edizioni EMI, 1998
• Il santo col martello – Felice Tantardini, 70 anni di Birmania di Piero Gheddo, Edizioni EMI, 2000
• Missione Birmania 1867-2007 – I 140 anni del Pime in Myanmar, di Piero Gheddo, Edizioni EMI, 2007
S-21 - Nella prigione di Pol Pot

S-21; un romanzo storico, una narrazione viva e potente che porta il lettore in una struttura detentiva istituita dal regime degli Khmer Rossi, una prigione da cui pochi sono tornati, seppur segnati nel corpo e nello spirito, vivi.
IL CUSTODE DI TERRA SANTA - un colloquio con padre Pierbattista Pizzaballa
INDOCINA - Un libro, una saggio, una guida per chi vuole approfondire

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