Non dimenticare la storia


Als die Nazis die Kommunisten holten, habe ich geschwiegen;
ich war ja kein Kommunist.
Als sie die Sozialdemokraten einsperrten, habe ich geschwiegen;

ich war ja kein Sozialdemokrat.
Als sie die Gewerkschafter holten, habe ich nicht protestiert;

ich war ja kein Gewerkschafter.
Als sie die Juden holten, habe ich nicht protestiert;

ich war ja kein Jude.
Als sie mich holten,
gab es keinen mehr, der protestierte.


Quando i nazisti vennero per i comunisti, io restai in silenzio;
non ero comunista.
Quando rinchiusero i socialdemocratici, rimasi in silenzio;
non ero un socialdemocratico.
Quando vennero per i sindacalisti, io non feci sentire la mia voce;
non ero un sindacalista.
Quando vennero per gli ebrei, non protestai;
non ero un ebreo.
Quando vennero per me, non era più rimasto nessuno che potesse far sentire la mia voce.

(Emil Gustav Friedrich Martin Niemöller; Lippstadt, 14 gennaio 1892 – Wiesbaden, 6 marzo 1984)



S-21 - Nella prigione di Pol Pot

S-21 - Nella prigione di Pol Pot
S-21; un romanzo storico, una narrazione viva e potente che porta il lettore in una struttura detentiva istituita dal regime degli Khmer Rossi, una prigione da cui pochi sono tornati, seppur segnati nel corpo e nello spirito, vivi.

IL CUSTODE DI TERRA SANTA - un colloquio con padre Pierbattista Pizzaballa

IL CUSTODE DI TERRA SANTA - un colloquio con padre Pierbattista Pizzaballa
FESTIVAL FRANCESCANO 2014 - Rimini, piazza Tre Martiri,SABATO 27 SETTEMBRE - ORE 15.00 Presentazione del libro Il Custode di Terra Santa

INDOCINA - Un libro, una saggio, una guida per chi vuole approfondire

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Manifestazioni 2007 (VI)

Le manifestazioni che da quasi due mesi stanno sconvolgendo il Myanmar, dimostrano quanto importante sia la fede buddista nel paese. Sin da quando, nel XI secolo, il re Anawratha, elevò il buddismo a religione di stato, la confessione dell’Illuminato ha giocato un ruolo decisivo nelle scelte politiche e culturali della nazione asiatica. La devozione riservata dai birmani ai monaci è stata sfruttata dai monarchi per giustificare ogni sorta di scelte e arbitrii: dalle guerre (proposte in chiave di difesa del buddismo) alle tasse (per mantenere i monasteri e il clero). Nel XV secolo, la regina Shin Sawbu ricoprì d’oro la Shwedagon Pagoda senza che i suoi sudditi, già gravati oltremisura dalle imposte, osassero protestare. Le armate birmane, prima di ogni operazione bellica, pretendevano la benedizione dei monaci. E nel 1871 fu proprio l’installazione a Mindon dell’hti, l’ombrello decorativo in metallo, proiezione simbolica del sacro monte Meru, che sovrasta ogni stupa buddista, a dare inizio a quella presa di coscienza del popolo birmano contro il colonialismo britannico conclusasi nel 1948 con l’indipendenza del Paese. Consapevole di questa importanza fondamentale e imprescindibile per poter governare il Myanmar, ogni regime, monarchico, coloniale, democratico, dittatoriale succeduto alla guida della nazione, ha sempre cercato di accattivarsi le simpatie del clero buddista. Il fallimento della rivolta del 1988, conclusasi con un bagno di sangue costato la vita a migliaia di dimostranti, è dovuto anche al fatto che, allora, i leaders delle manifestazioni erano studenti e politici della Lega Nazionale per la Democrazia, il partito di Aung San Suu Kyi, mentre i religiosi appoggiavano solo dall’esterno le proteste. Oggi, invece, stiamo assistendo ad una rivolta guidata dal secondo esercito del Paese, 400.000 monaci e monache armati solo di quelle toghe arancioni divenute il simbolo di una lotta per la democrazia in tutto il mondo. «I militari possono non farsi scrupoli nello sparare sui civili, ma assaltare, picchiare e persino uccidere un monaco è uno dei peccati più gravi che un buddista possa commettere» spiega U Khin Saung, monaco del monastero Sandamuni di Mandalay. In questa città, 600 km a nord da Yangon, un intero battaglione, a cui era stato dato ordine di sparare sui manifestanti, si è rifiutato di uscire dalla caserma. La protesta a cui stiamo assistendo, non è, però, del tutto spontanea. In un paese dove ogni movimento è attentamente monitorato da 30.000 spie sparse in incognito tra la popolazione, occorre un’organizzazione capillare per radunare migliaia di persone. E’ noto che tra i vertici del clero buddista birmano, oculatamente scelti dai militari e quello tailandese, non scorre buon sangue. Inoltre da diversi mesi si assisteva ad un intensificarsi di scambi tra delegazioni dei due Paesi, in particolare con la Unione delle Federazioni dei Giovani Monaci della Birmania, l’organizzazione che si è rivelata essere la più attiva nel coordinare le manifestazioni. Più volte i capi della sangha (comunità buddista) birmana hanno chiesto ai monaci di rientrare nei monasteri, ma tutti gli appelli sono stati disattesi. «Dopo il fallimento delle rivolte del 1988, i bonzi, col loro carico di venerazione e di non violenza, rimanevano l’unica soluzione per destabilizzare la giunta ed evitare un nuovo bagno di sangue» mi dice Maung Thwin Aye, studentessa di Storia alla Yangon University. Appare chiaro che dietro la rivolta delle toghe arancioni ci sarebbero governi e organizzazioni intenzionate ad aiutare chi, all’interno della giunta birmana, è determinato ad imboccare la via verso la democrazia. La Cina, in primo luogo, non si fiderebbe di Than Shwe il quale non ha mai mostrato simpatia per Pechino, specialmente dopo gli attentati del 2006 a Yangon, sponsorizzati dall’ingombrante vicino, che hanno indotto il governo birmano a concedere a ditte cinesi lo sfruttamento dei pozzi di gas naturale nel Golfo del Bengala. Il “Grande Vecchio” birmano pur non avendo mai digerito questa ingerenza, non ha potuto fare a meno di dare spazio ai generali filocinesi all’interno dell’SPDC (acronimo per State Peace and Development Council, il nome ufficiale della giunta militare), indebolendo la sua posizione, quella della fazione filoindiana che lo appoggia e perdendo parzialmente il controllo del Paese. Inoltre, con l’approssimarsi delle Olimpiadi, la Cina vuole mostrare a tutto il mondo l’influenza che può avere sul continente, come ha già fatto con la questione nordcoreana, in modo da essere annoverata a pieno titolo come potenza leader emergente. Ma anche l’Occidente preme affinché il Myanmar apra la via democratica, e non solo per una questione morale. Le restrizioni economiche, già peraltro disattese da quasi tutti i governi, vanno strette alle economie di mercato. L’isolamento quarantennale del paese, grande più di due volte l’Italia, ha preservato le sue ricchezze naturali pressoché intatte. La francese Total e la malese Petronas da anni collaborano con il regime birmano, mentre l’Italia oltre a commercializzare prodotti tessili, porta un turismo d’elite assai apprezzato dal regime, in quanto poco “curioso” e facilmente controllabile. I giochi quindi, sono ancora aperti ed è significativo che Ibrahim Gambari, l’inviato speciale dell’ONU giunto a Yangon la scorsa settimana, non abbia incontrato Than Shwe, ma sia riuscito ad avere un lungo colloquio con Aung San Suu Kyi, la leader dell’opposizione agli arresti domiciliari dal 1989. I prossimi giorni saranno cruciali per il futuro del Myanmar, ma comunque vadano le cose tutti sanno che il Tatmadaw (le Forze Armate birmane) rimane l’unica forza in grado di mantenere unito il paese e non potrà essere escluso da alcuna risoluzione. Pena la morte del Myanmar e la destabilizzazione dell’intero Sud Est Asiatico.

© Piergiorgio Pescali

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