Nel 2006, nel distretto di Nyaungshwe, vicino a Mandalay, le piogge furono così abbondanti che le autorità decisero nottetempo di aprire le dighe a monte dei villaggi per diminuire la pressione dell’acqua. Nessuno era stato avvertito e l’ondata di piena arrivò senza preavviso inondando in pochi minuti decine di villaggi. «Vedevamo cadaveri passare trascinati dalla corrente» racconta Suor Joanna «Non so quanti furono i morti, i militari hanno proibito di parlare e di diffondere la notizia». Disastri “coperti” come questo accadono ancora oggi in Myanmar. Mentre i turisti si godono le bellezze della Kuthoday o i tramonti di Bagan, interi paesi vengono evacuati a forza e i loro abitanti trasferiti. E’ la politica dello sradicamento voluta dal governo con lo scopo di evitare possibili contatti tra i vari membri dell’opposizione. La paura è tanta nella nazione e la si tocca ogni volta che parlo con qualche persona. Anche all’interno della Chiesa cattolica le parole vengono soppesate con il contagocce. Di fronte al microfono la bella tiritera di elogi al governo non lascia spazio a critiche, ma appena spengo il registratore, ecco che si parte. «Dobbiamo stare molto attenti a ciò che diciamo e dove parliamo. Ogni luogo ha le sue spie» mi dice il vescovo di Bhamo, Raymond Sumlut Gam. Qui, nel nord del Paese, come a Kengtung o a Myitkyna, terra di etnie storicamente ostili ai birmani, le manifestazioni che stanno avvenendo al sud sono viste come eventi lontani, ininfluenti nella vita politica del popolo. Ma appena si attraversa il confine e si raggiungono le città birmane, ecco che l’interesse aumenta. A Mandalay padre Marco sta cercando con fatica di stabilire un dialogo con la chiesa buddista. «Molti preti cattolici non vedono di buon occhio questa via ecumenica, specialmente ora che i monaci sono impegnati in queste manifestazioni contro il governo». Il vescovo della diocesi, Paul Zingtung Gawng afferma che «Non ci dobbiamo fare illusioni: i militari sono ancora molto potenti, ma anche se dovesse cambiare il governo e portare la Lega Nazionale per la Democrazia al potere, per il popolo la situazione non migliorerebbe». Questa sfiducia nei confronti del partito della Lady, come è chiamata Aung San Suu Kyi, è un ritornello che si ripete ogni volta. «La Lady è segregata nella sua casa a Yangon, non vede cosa sta accadendo, gli intrallazzi che ci sono tra militari e membri della Lega. Lei è oramai fuori dal partito, è un’icona che serve per mantenere alta l’attenzione dell’Occidente.» conclude Mons. Raymond Sumlut Gam. Ciononostante l’attenzione verso le manifestazioni è viva. «Non possiamo esporci perché il governo ci ostacola e ci vede, soprattutto in questi frangenti, come una organizzazione ostile asservita all’Occidente.» continua Paul Zingtung Gawng «Ogni nostra presa di posizione a favore dell’opposizione porterebbe immediatamente ad una ritorsione nei nostri confronti e verso il lavoro sociale che stiamo affrontando».
© Piergiorgio Pescali
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