Non dimenticare la storia


Als die Nazis die Kommunisten holten, habe ich geschwiegen;
ich war ja kein Kommunist.
Als sie die Sozialdemokraten einsperrten, habe ich geschwiegen;

ich war ja kein Sozialdemokrat.
Als sie die Gewerkschafter holten, habe ich nicht protestiert;

ich war ja kein Gewerkschafter.
Als sie die Juden holten, habe ich nicht protestiert;

ich war ja kein Jude.
Als sie mich holten,
gab es keinen mehr, der protestierte.


Quando i nazisti vennero per i comunisti, io restai in silenzio;
non ero comunista.
Quando rinchiusero i socialdemocratici, rimasi in silenzio;
non ero un socialdemocratico.
Quando vennero per i sindacalisti, io non feci sentire la mia voce;
non ero un sindacalista.
Quando vennero per gli ebrei, non protestai;
non ero un ebreo.
Quando vennero per me, non era più rimasto nessuno che potesse far sentire la mia voce.

(Emil Gustav Friedrich Martin Niemöller; Lippstadt, 14 gennaio 1892 – Wiesbaden, 6 marzo 1984)



S-21 - Nella prigione di Pol Pot

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S-21; un romanzo storico, una narrazione viva e potente che porta il lettore in una struttura detentiva istituita dal regime degli Khmer Rossi, una prigione da cui pochi sono tornati, seppur segnati nel corpo e nello spirito, vivi.

IL CUSTODE DI TERRA SANTA - un colloquio con padre Pierbattista Pizzaballa

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FESTIVAL FRANCESCANO 2014 - Rimini, piazza Tre Martiri,SABATO 27 SETTEMBRE - ORE 15.00 Presentazione del libro Il Custode di Terra Santa

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Le arti classiche khmer

La leggenda che descrive la nascita della razza khmer è uno dei più interessanti racconti che la letteratura del Sud-Est Asiatico abbia saputo produrre. Storia, etnologia, sincretismo religioso e surrealismo orientale si mescolano armoniosamente tra loro, dando vita ad una commovente storia d’amore. L’unione del mitico indiano Kambu, con la meravigliosa danzatrice Mera, rispetta, pur nella concezione fantastica, la realtà di due popoli che, incontrandosi pacificamente, si conglobano tra loro dando vita ad un'unica razza e cultura.
In tutti gli aspetti della vita delle popolazioni indocinesi, l’influenza che il subcontinente indiano ha esercitato nel corso dei secoli passati è visibile ancora oggi, ma in quella khmer si rende addirittura tangibile: musica e danza sono le arti che meglio rispecchiano queste peculiarità. Entrambe questi elementi sono parte integrante della vita khmer, tanto che difficilmente si scindono dalle più comuni faccende quotidiane.
La famosa “scala celeste”, trova nei musicisti khmer i suoi ultimi esecutori; le vibranti note riescono ad accompagnare lo spirito dei più attenti ascoltatori gradatamente al di sopra del mondo materiale, avvicinando la propria mente alle sfere celesti e, in ultimo stadio, al Nirvana.
Ogni stacco musicale è considerato un omaggio al Buddha e come tale deve essere suonato alla perfezione, senza alcuna ambiguità polifonica.
L’orchestra classica khmer, chiamata pinpeat, è composta solitamente da uno xilofono, due kapei (chitarre monocorde a manico rovesciato), un flauto, uno o più tamburi in pelle e due khloy (clarinetto di bambù).
Negli spettacoli popolari, la musica è sempre accompagnata dalla danza. E’ impossibile dire quale delle due arti sia il compendio dell’altra: nessuna potrebbe sopravvivere senza il reciproco supporto.
Nelle famiglie cambogiane, i bambini vengono educati sin dalla più tenera età a muoversi secondo movimenti ben precisi, rendendo più elastiche le articolazioni del corpo e degli arti. Mani e piedi, infatti, debbono flettersi armoniosamente, senza improvvise contrazioni. Assieme all’espressione del volto sono le mani, ed in particolare le dita delle danzatrici, che catturano l’attenzione dello spettatore. Dita affusolate, unghie lunghe colorate e ben curate, rappresentano dei punti cardine indispensabili affinché lo spettacolo riesca a raggiungere lo scopo prefisso: coinvolgere emotivamente il pubblico sino a farlo immedesimare idealmente nel personaggio protagonista, ricalcandone i sentimenti.
Un altro degli aspetti fondamentali del teatro khmer, è il trucco del viso. Si le danzatrici che i danzatori, vengono truccati in modo da far risaltare al massimo le parti del viso che dovranno rispecchiare gli stati d’animo del personaggio in cui si dovranno calare. Bocca e occhi sono evidenziati con decisi tratti di colore, mentre il resto del volto è schiarito, per accentuare il contrasto, con cipria.
La capacità espressiva e la sinuosa gestualità degli arti, mani e piedi, sembrano doti talmente naturali nel cambogiano, che non si può evitare di rimandare il pensiero alla leggendaria capostipite della razza khmer, quella Mera che, appunto, era danzatrice essa stessa.
L’abbigliamento è sempre sfarzoso, colorato e tempestato da pietre policrome. Un tempo, durante gli spettacoli di corte, i costumi venivano tessuti in seta di raso e le pietre erano zaffiri, rubini, diamanti, giade.
Il mokot, la mitra dalla tradizionale forma appuntita, oltre a servire per raccogliere i capelli, arricchisce l’insieme coreografico, dando quel tocco di regalità e solennità indispensabile in ogni recita.
Le rappresentazioni si svolgono solitamente sullo scenario di Angkor Wat e trattano temi di carattere sentimentale, con evidenti influssi religiosi e animasti. Sono sempre presenti i demoni della cosmologia prebuddista i quali, di volta in volta, si scontrano o si alleano con altri esseri ultraterreni secondo regole il più delle volte incomprensibili per il profano.
Le danze terminano quasi sempre con la sconfitta delle forze maligne ed il trionfo del bene, impersonificato dai due amanti, che coronano il loro sogno d’amore tra gli scroscianti applausi degli astanti.

© Piergiorgio Pescali

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