Le grandiose rovine di Angkor Wat sono oramai un ricordo che sobbalzano assieme a me lungo la strada sterrata verso nord. Da sei ore il pick-up arranca faticosamente inoltrandosi nel fitto della giungla cambogiana per dirigersi verso quello che, fino a dieci anni fa, era considerato il luogo più inaccessibile del pianeta: Anlong Veng. Non è altro che un pugno di capanne, Anlong Veng, ma per due decenni, dagli anni Ottanta al 1997, questo villaggio ha accolto l’intera dirigenza dei Khmer Rossi, da Pol Pot a Ta Mok, da Nuon Chea a Khieu Samphan, divenendo la capitale de facto della guerriglia comunista. Durante tutto questo tempo, il villaggio è stato precluso agli stranieri ed organizzazioni internazionali; solo sette stranieri, tra cui il sottoscritto, erano riusciti ad ottenere dei permessi per accedervi e intervistare i loro leaders, incluso Pol Pot. Oggi, la sua tomba, un semplice simulacro in legno con inciso il nome, è meta di pellegrinaggio e quest’anno, decimo anniversario della sua morte, si prevede che migliaia di cambogiani, inclusi numerosi monaci buddisti, arriveranno a rendere omaggio a quello che in molti considerano uno dei peggiori tiranni del XX secolo. Ma nei villaggi un tempo controllati dai Khmer Rossi, si respira un chiaro senso di nostalgia verso il regime passato. «Il governo di Phnom Penh ci ha tolto tutto quello che i Khmer Rossi ci avevano dato: scuole, ospedali, riso. Come possiamo dirci felici di essere tornati sotto Phnom Penh?» si chiedono i contadini di Phumi Roessei, riuniti durante un sopralluogo della Croce Rossa Internazionale. Qui, come in molti altri distretti del nordovest cambogiano, il governo ha volutamente escluso la popolazione dal flusso degli aiuti internazionali punendola per la sua fedeltà al movimento rivoluzionario. La liberazione, tanto propagandata dal governo cambogiano, si è trasformata in un incubo per molti contadini. Anche l’australiano Ben Kiernan, direttore del Genocide Studies Program alla Yale University ricorda che «il sostegno che ricevono ancora oggi i Khmer Rossi, è dovuto principalmente ai progetti agricoli sviluppati nelle regioni da loro controllate dopo gli anni Ottanta, che hanno permesso alle popolazioni di raggiungere uno stile di vita molto più elevato dei connazionali rimasti nelle regioni controllate direttamente da Phnom Penh». Uno smacco per Hun Sen, l’attuale Primo Ministro che ha sempre demonizzato la dirigenza Khmer Rossa, ma anche per le Nazioni Unite, patrocinatori del processo in corso ai sopravvissuti dirigenti di Kampuchea Democratica, accusati di genocidio per aver causato la morte di più di un milione di cambogiani durante i tre anni e otto mesi di governo tra il 1975 e il 1979. Il disinteresse con cui i cambogiani stanno seguendo le fasi del processo dimostra quanta sfiducia vi sia nella nuova classe dirigente. In un Paese dove il potere giudiziario è diretta emanazione di quello politico e dove le associazioni preposte al rispetto dei diritti umani sono bandite o, nel migliore dei casi, mal tollerate, nessuno si aspetta chiarezza. Un processo equo non farebbe piacere a nessuno: sarebbero in troppi a dover dare spiegazioni sui loro comportamenti prima, durante e dopo l’avvento dei Khmer Rossi al potere. L’Occidente e le stesse Nazioni Unite dovrebbero spiegare gli aiuti diplomatici, finanziari e militari dati ai Khmer Rossi dopo il 1979; Sihanouk dovrebbe convincere un’eventuale giuria obiettiva delle sue acrobatiche manovre politiche per restare aggrappato al trono regale, Hun Sen di come abbia aiutato Pol Pot a conquistare il potere per poi trasformarsi nel suo più violento accusatore. «Il processo è un atto dovuto, ma questo rischia di trasformarsi in un farsa: i colpevoli sono già designati, ma le responsabilità non verranno mai a galla.» mi dice David Chandler, studioso della Cambogia e autore della prima biografia su Pol Pot. Nuon Chea, vice di Pol Pot e principale accusato, in un’intervista rilasciata in esclusiva, denuncia che «si cercano dei capri espiatori per ripulire le coscienze. Se non ci fossero stati i Khmer Rossi, oggi la Cambogia sarebbe territorio vietnamita. Quando il Vietnam ha invaso la Cambogia, l’ONU, gli Stati Uniti e i governi occidentali hanno condannato l’aggressione garantendoci protezione e aiuti. Se siamo colpevoli anche chi ci ha aiutato deve essere condannato».
© Piergiorgio Pescali
S-21 - Nella prigione di Pol Pot
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