Non dimenticare la storia


Als die Nazis die Kommunisten holten, habe ich geschwiegen;
ich war ja kein Kommunist.
Als sie die Sozialdemokraten einsperrten, habe ich geschwiegen;

ich war ja kein Sozialdemokrat.
Als sie die Gewerkschafter holten, habe ich nicht protestiert;

ich war ja kein Gewerkschafter.
Als sie die Juden holten, habe ich nicht protestiert;

ich war ja kein Jude.
Als sie mich holten,
gab es keinen mehr, der protestierte.


Quando i nazisti vennero per i comunisti, io restai in silenzio;
non ero comunista.
Quando rinchiusero i socialdemocratici, rimasi in silenzio;
non ero un socialdemocratico.
Quando vennero per i sindacalisti, io non feci sentire la mia voce;
non ero un sindacalista.
Quando vennero per gli ebrei, non protestai;
non ero un ebreo.
Quando vennero per me, non era più rimasto nessuno che potesse far sentire la mia voce.

(Emil Gustav Friedrich Martin Niemöller; Lippstadt, 14 gennaio 1892 – Wiesbaden, 6 marzo 1984)



S-21 - Nella prigione di Pol Pot

S-21 - Nella prigione di Pol Pot
S-21; un romanzo storico, una narrazione viva e potente che porta il lettore in una struttura detentiva istituita dal regime degli Khmer Rossi, una prigione da cui pochi sono tornati, seppur segnati nel corpo e nello spirito, vivi.

IL CUSTODE DI TERRA SANTA - un colloquio con padre Pierbattista Pizzaballa

IL CUSTODE DI TERRA SANTA - un colloquio con padre Pierbattista Pizzaballa
FESTIVAL FRANCESCANO 2014 - Rimini, piazza Tre Martiri,SABATO 27 SETTEMBRE - ORE 15.00 Presentazione del libro Il Custode di Terra Santa

INDOCINA - Un libro, una saggio, una guida per chi vuole approfondire

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Cambogia - Reportage II (2004)

Ricordo ancora la prima volta che visitai Phnom Penh, verso la metà degli anni Ottanta. In una città nella quale, alla vigilia della vittoria dei Khmer Rossi, si assiepavano quasi tre milioni di persone (la metà dell’intera popolazione del Paese), ora se ne contavano meno di centomila. Le strade erano deserte, animate solo da qualche raro passante, il più fortunato dei quali arrancava pedalando su biciclette arrugginite. Il mercato centrale raccoglieva il poco che la nazione potesse offrire: c’era chi vendeva un casco di banane, chi un paio di papaye, chi un copertone d’auto completamente liso, altri mettevano in mostra semplici fili di ferro, altri ancora rarissime penne o matite; i più fortunati avevano uno o due chili di riso raggranellati chissà dove. Il baratto era l’unica forma di commercio accettata; la moneta, introdotta pochi mesi dopo la caduta del regime di Pol Pot, si svalutava di ora in ora e nessuno si sentiva sicuro nel possedere dei pezzi di carta che avrebbero potuto trasformarsi in combustibile per il fuoco, come era già accaduto il 17 aprile 1975.
Gli edifici della città erano per lo più abbandonati, lasciati all’incuria e alla mercé della vegetazione. Di notte, poi, la capitale era incredibile a vedersi: il buio più completo la avvolgeva; il silenzio, rotto da qualche generatore diesel che alimentava poche fioche luci di lampadine che variavano continuamente la loro intensità luminosa, contribuiva a creare un’atmosfera irreale. Lungo le strade deserte i lumini delle lanterne rischiaravano appena i volti di famiglie sedute in circolo a consumare ciò che una giornata di lavoro era riuscita loro ad offrire, generalmente una manciata di riso, qualche verdura e qualche frutto.
Ricordo ancora quella Phnom Penh di quasi vent’anni fa, mentre ora mi incammino lungo un Boulevard Norodom intasato di macchine e motorini che strombazzano all’ombra di enormi cartelloni pubblicitari affiancati da negozi che espongono tutto ciò che il mercato internazionale mette a disposizione.
I bambini, probabilmente figli di quegli stessi ragazzini che tempo fa avevo visto assaporare con tanto languore pochi chicchi di riso, corrono a piedi nudi sull’asfalto cotto dal sole. I più fortunati leccano un gelato, altri sorseggiano un Mirinda, la Fanta del Sud Est Asiatico. Il mercato centrale, tornato ai suoi antichi splendori, è affollato all’inverosimile. Si paga in riel; il baratto, almeno qui in città, non è più accettato. Poco distante, i pullman aspettano di riempire gli ultimi posti per poi sfrecciare verso ogni angolo di un Paese che, dopo più di tre decenni, non è ancora riuscito a scrollarsi di dosso l’incubo del suo passato, dato che le ferite da questo inferte al popolo sono ancora troppo evidenti e presenti nella vita quotidiana. La zoppicante democratizzazione della vita politica, iniziata nel 1993 con le elezioni volute dalle Nazioni Unite e parzialmente fallite per l’opposizione dei Khmer Rossi, è continuata attraverso altre due consultazioni generali, l’ultima delle quali si è svolta nel luglio scorso. In tutte il leader del Partito del Popolo Cambogiano, Hun Sen, ha ottenuto schiaccianti vittorie grazie più alla sfiducia espressa dagli elettori verso i suoi inetti oppositori, che per la fiducia che infonde il Premier. Troppi, infatti, sono i prefissi “ex” che si possono affibbiare alla carriera politica di Hun Sen perché le sue promesse possano ritenersi attendibili: ex Khmer Rosso, ex filovietnamita, ex comunista. Per anni il potere di Hun Sen e la Cambogia stessa, non sono crollati solo grazie alla fragile impalcatura di un tacito consenso politico in funzione anti-Pol Pot: tutto quanto di negativo accadeva in Cambogia veniva imputato ai Khmer Rossi. Gli assassini politici, il difficile decollo economico, l’instabilità del Paese, la povertà delle campagne, i brogli elettorali, la burocrazia, l’inefficienza delle strutture pubbliche l’alta percentuale di handicappati fisici e mentali e, dulcis in fundo, il putsch del 1997. Il dito era immancabilmente puntato verso di loro: «I Khmer Rossi dominano ancora il Paese e le divisioni politiche all’interno del Parlamento non fanno che rafforzarli. E’ ora che la Cambogia abbia un solo leader capace di far fronte alla barbarie» mi aveva detto Hun Sen subito dopo il putsch del 5 luglio 1997 cercando di giustificare il suo operato. Poi ha aggiunto: «Io ho salvato la Cambogia da un secondo massacro: l’accordo stipulato tra il Funcipec di Norodom Ranariddh e la dirigenza dei Khmer Rossi, spianava la strada dalle giungle di Anlong Veng a Phnom Penh per Pol Pot e la sua cricca. Avremmo avuto altri Killing Fields. Era questo che i cambogiani volevano? Non penso. Ho quindi deciso di agire». Ma questa facciata di Hun Sen salvatore della patria non regge. Tutti qui ricordano che è stato lui ad opporsi energicamente ad un eventuale giudizio in tribunale della dirigenza di Kampuchea Democratica ed è stato ancora lui a concedere la grazia e l’immunità a Ieng Sary, l’ex Ministro degli Esteri e Fratello Numero Tre di Kampuchea Democratica, cognato di Pol Pot, in cambio di una sottomissione al governo di Phnom Penh. Oggi Pailin, la regione più ricca della Cambogia grazie alle sue miniere di rubini, è un’entità semiautonoma, amministrata dai transfughi Khmer Rossi, dove gli emissari governativi non hanno alcun potere. Qui vivono, oltre a Ieng Sary e sua moglie Ieng Thirith, Noun Chea, Fratello Numero Due di Kampuchea Democratica, Khieu Samphan ed altri dirigenti scampati alla cattura nel 1998, quando anche l’ultima roccaforte Khmer Rossa, quella di Anlong Veng, venne occupata dall’esercito governativo.
Mi reco a Pailin, dove riesco ad incontrare Ieng Sary. Lui, come tutti i suoi compagni, circola liberamente senza scorta per le vie del villaggio. La gente lo venera, non per paura, ma perché vede in quest’uomo una figura carismatica che vive tra loro, ride con loro, mangia nei loro ristorantini. Insomma, è uno di loro. Ogni giorno, davanti alla sua casa ci sono numerose persone che chiedono il suo aiuto o il suo consiglio per dirimere contenziosi. La sua parola è legge e tutti l’accettano. «Noi ex dirigenti di Kampuchea Democratica ci siamo ritirati da tempo dalla politica. Ci siamo accorti che la nostra politica non si poteva adattare alla società cambogiana perché gli obiettivi che a quel tempo ci eravamo prefissi erano troppo ambiziosi e noi non potevamo, con i mezzi che avevamo, raggiungerli. Era solo un sogno, un sogno che non poteva divenire realtà». Quindi, ci si è adattati al nuovo sistema. La posizione strategica di Pailin, a pochi chilometri dal confine tailandese e il continuo andirivieni di compratori di pietre preziose, hanno indotto Ieng Sary a concedere al magnate cambogiano Theng Bunma di costruire il primo casinò della Cambogia post-Khmer Rossi in cambio di una cospicua fetta dei profitti. Esprimo a Ieng le mie perplessità sulla degradazione morale che locali come questo possono creare nella comunità: per assai molto meno, migliaia di cambogiani erano stati accusati dal suo stesso governo di aver ceduto ai vizi del capitalismo e, per questo, uccisi. Lui capisce e condivide, ma afferma che il casinò servirà per costruire e migliorare le infrastrutture pubbliche della regione.
Quella della decadenza etica della società cambogiana è uno dei problemi principali che le chiese e le NGO cercano di contrastare. L’arrivo in massa di soldati stranieri delle Nazioni Unite negli anni Novanta, seguiti dalle organizzazioni internazionali e dal turismo di massa, hanno contribuito ad alimentare l’industria della prostituzione, principalmente infantile. A Tuol Kork, uno dei quartieri più periferici di Phnom Penh, ragazze dai dieci-dodici anni in su, nascoste dietro maschere di trucco, si offrono a chiunque offra loro denaro. La maggioranza viene dalle campagne, altre sono state letteralmente vendute dalle famiglie, altre ancora provengono dal Vietnam o dal Laos da dove sono giunte con la promessa di un lavoro decente.
«I Khmer Rossi hanno creato una nazione in cui corruzione e prostituzione erano virtualmente assenti e questo ha contribuito a creare nei giovani una sorta di mito di purezza che i politici nostrani, con i loro inconcepibili comportamenti, contribuiscono ad alimentare» mi spiega George Ingram, direttore della Coalizione per l’Educazione di Base, un’organizzazione formata da sedici NGO statunitensi che lottano per contrastare la diffusione dell’AIDS in Cambogia che, con il 2,8% della popolazione affetta da HIV, è il Paese del Sud Est Asiatico con la percentuale più alta di sieropositivi. Ma anche chi riesce a non essere inghiottito dal racket della prostituzione, non ha vita più facile: da Taiwan, Thailandia, Malesia, Cina, arrivano imprenditori attirati dalla completa mancanza di regole nel campo del lavoro. Nelle fabbriche, soprattutto tessili, si lavora ininterrottamente per 12-14 ore al giorno a trenta dollari al mese senza alcun diritto; le rappresentanze sindacali, quando esistono, sono messe a tacere con ricatti o con la violenza e gli abusi sessuali nei confronti delle donne e dei bambini sono oramai all’ordine del giorno. Sam Rainsy, il politico più anticomunista del Parlamento cambogiano e leader dell’omonimo partito, ha avviato una campagna di difesa dei lavoratori e dei contadini: «Lo sviluppo economico deve andare di pari passo alla giustizia sociale, ma dobbiamo considerare anche i costi sociali e ambientali che dovremmo pagare; abbiamo il dovere di proteggere le nostre risorse naturali e difendere i diritti dei poveri e dei deboli. La Cambogia ha bisogno di investitori stranieri, ma essi devono rispettare i diritti dei lavoratori». Belle parole, ma che si scontrano con le difese offerte dallo stesso Rainsy nei confronti degli imprenditori quando questi si trovano in conflitto con il governo, segno di quanto sia contraddittoria e opportunista la classe politica del Paese. Nella sua campagna elettorale Rainsy, che dopo aver vissuto ventisette anni in Francia è tornato in Cambogia con l’intenzione di trasformare la società seguendo il modello occidentale, ha più volte alimentato l’odio storico esistente tra khmer e viet, usando violente espressioni antivietnamite proprie del vocabolario Khmer Rosso: “il governo fantoccio del Vietnam”, “la strategia dei leaders vietnamiti nel vietnamizzare l’Indocina con l’intenzione di rendere la Cambogia uno stato satellite…”, “soldati vietnamiti che dopo aver occupato la Cambogia ora reclamano la cittadinanza cambogiana…” “l’indipendenza cambogiana messa in pericolo dall’imperialismo comunista”. Slogan pericolosi che vengono usati a giustificazione di mobilitazioni e assalti alle ambasciate del Vietnam o della Thailandia o per incitare veri e propri pogrom diretti contro le etnie minoritarie.
E quando la violenza khmer si scatena, neppure gli appelli del re Sihanouk possono fermarla. Paul Mus, studioso della società cambogiana scriveva: “Si crede che i cambogiani siano miti. Diffidate di questa fama. Conoscete dei miti che hanno costruito qualcosa di altrettanto formidabile di Angkor? Appena le circostanze vi si presenteranno, scoppierà la loro violenza...” Quanta ragione aveva Paul Mus! E allora non è un caso che il personaggio pubblico più longevo del Paese è proprio il più indecifrabile ed ambiguo di tutti: il re Sihanouk, il quale oggi occupa il tempo a scrivere canzoni inascoltabili. Anti-tutto e allo stesso tempo pro-tutto, Sihanouk è sopravvissuto a se stesso dopo il fallimento del Sangkum negli anni Sessanta, è scampato al colpo di stato di Lon Nol, alla furia dei Khmer Rossi, all’odio dei vietnamiti e di Hun Sen, giungendo sano e salvo al 2004 senza dover rendere conto a nessuno delle sue inconcepibili prese di posizione. Suo figlio Norodom, politico più per raccomandazione che per capacità, non è mai riuscito ad affermarsi sul piano personale, offuscato dalla figura paterna nella corte reale e da quella del suo rivale Hun Sen in Parlamento. Tutte le sue mosse per conquistarsi una fetta di potere si sono dimostrate disastrose ed i suoi sostenitori lo hanno abbandonato in massa.
Di fronte a questa disfatta politica, non è una sorpresa giungere ad Anlong Veng e trovare la tomba in cui giacciono le ceneri di Pol Pot coperta da ex-voto e costantemente visitata da cambogiani che rendono omaggio ad un leader condannato dall’umanità intera, ma che il suo popolo non ha ancora ricusato.
«Pol Pot è stato un leader esemplare per tutti noi. E’ vissuto con noi; è morto come noi» mi dice un contadino. Una ragazza lamenta che dopo l’arrivo delle autorità di Phnom Penh le infrastrutture agricole, tanto efficienti sotto i Khmer Rossi, sono state abbandonate e la regione, prima del 1998 una delle più fiorenti della Cambogia, ora sta rapidamente degenerando.
«Ora ci rimangono solo due possibilità» conclude una vedova, madre di quattro figli: «trasferirci a Pailin sotto Ieng Sary, Noun Chea e Khieu Samphan, o andare in Thailandia».

© Piergiorgio Pescali

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