Il 18 ottobre 1955 sul periodico cambogiano Neak Cheat Nityum (Il Nazionalista), apparve un articolo di re Norodom Sihanouk in cui si immaginava un eventuale Paese governato dai comunisti: «Non ci sarà felicità. Tutti lavoreranno per il governo. Nessuno guiderà macchine o moto o indosserà bei vestiti: tutti vestiranno di nero, tutti esattamente allo stesso modo. Non ci saranno cibi gustosi da mangiare. Se tu mangerai più di quanto ti sia concesso, il governo verrà a saperlo segretamente dai tuoi figli, sarai portato via e ucciso». Vent’anni dopo, quando il 17 aprile 1975 i Khmer Rossi entrarono a Phnom Penh, a molti sembrò che quelle parole stessero per avverarsi. E, in effetti, per molti cambogiani si realizzarono. Ma per molti altri, il regime dei Khmer Rossi non rappresentò quella mostruosità descritta in molti libri e film. La Cambogia di Urla del silenzio era reale, ma nel 1975, Saloth Sar non aveva ancora in mano saldamente il potere; anzi, la maggioranza del Paese era controllato da gruppi che facevano capo a leaders che si opponevano, direttamente o indirettamente, a quello che in seguito (solo dal 1976) divenne noto come Pol Pot e alla sua politica di svolta radicale in campo sociale e economico. Hou Youn, Hu Nim, So Phim, lo stesso Khieu Samphan rappresentavano l’ala moderata e intellettuale del movimento, più favorevole ad un processo di collettivizzazione graduale e meno traumatico. Solo in due delle sei zone in cui venne divisa la nuova nazione, la dirigenza khmer rossa poteva essere considerata assolutamente fedele a Saloth Sar; tutte le altre aree avevano vertici moderati, ideologicamente motivati, intenti più a ricercare il miglioramento delle condizioni di vita del popolo piuttosto che a rafforzare il loro potere e interpretare alla lettera le direttive del Partito. E la situazione che in molte parti di Kampuchea Democratica si era venuta a creare prima che Pol Pot acquisisse il potere assoluto su tutto il territorio, si è continuata a riscontrare nelle zone occupate dai Khmer Rossi dopo l’invasione vietnamita del 1979. L’inteso dibattito interno alla dirigenza khmer rossa sulle cause del crollo del regime, aveva infatti portato alla conclusione che gli errori dogmatici e di radicalismo ideologico imposti all’intero popolo non potevano essere ripetuti, pena l’autodistruzione dell’intero movimento.
La maggioranza dei 13 milioni di cambogiani che oggi compongono la popolazione del Paese, è nata dopo il crollo del regime di Pol Pot, ma raccoglie le testimonianze di chi ha vissuto e visitato le aree controllate dal movimento dopo gli anni Ottanta, affermare che la qualità della vita, le strutture agricole e sociali erano migliori di quelle che trovano nella Cambogia attuale governata da un altro ex Khmer Rosso: Hun Sen. E basta viaggiare nelle zone rurali del paese, dove vive l’80% della popolazione, per accorgersi che, agli occhi del popolo, il regime di Kampuchea Democratica non ha portato solo morte e distruzione. «I Khmer Rossi e Pol Pot in particolare, sono visti come esempio di onestà e, paradossalmente, di giustizia: Pol Pot non si è arricchito ed è morto in povertà, come gli stessi sudditi che trucidava» ha detto David P. Chandler, il più insigne studioso della figura del leader khmer e autore di Brother Number One: A Political Biography of Pol Pot. E’ anche per questo che, di fronte alle violenze sociali e politiche, di fronte alla sempre crescente miseria economica e morale, alla mancanze di valori, di fronte ad una classe politica inetta e piatta, le simpatie per i Khmer Rossi, per il passato di Kampuchea Democratica e per la dirigenza storica del movimento comunista cambogiano, stanno facendo presa sulla popolazione contadina e sugli studenti. La stessa regione di Pailin, una sorta di enclave semindipendente controllata da Ieng Sary e dove i leader khmer rossi vivono liberamente, è la regione più ricca della nazione. E allora ecco rivelarsi profondamente vere le parole di David P. Chandler: «Per capire l’uomo e quello che è accaduto in Kampuchea Democratica è cruciale recuperare il contesto cambogiano e le influenze che ha avuto dall’esterno. Tutti noi ci dobbiamo mettere in discussione». Ma abbiamo il coraggio di farlo?
© Piergiorgio Pescali
S-21 - Nella prigione di Pol Pot
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