Venendo da
Fukushima, Minamisoma è l’ultima città abitata che si incontra prima di entrare
nella zona contaminata dalle radiazioni che continuano a fuoriuscire dalla
centrale nucleare Numero Uno. Immediatamente dopo le ultime abitazioni della
cittadina, gli effetti devastanti dello tsunami cominciano a farsi evidenti:
case sventrate, carcasse di macchine abbandonate, pile di elettrodomestici,
ferraglie e calcinacci sono disseminati nei campi circostanti. Tra le strade
semideserte i semafori funzionano ancora: ai residenti è proibito restare dopo
il tramonto, ma durante il giorno possono visitare le loro proprietà. Gruppi di
volontari si alternano per aiutare i contadini della zona a tenere puliti i
giardini, altrimenti infestati dalle erbacce. Lavoro inutile dal punto di vista
pratico, dato che, almeno a questa generazione, difficilmente sarà permesso di
rientrare nelle proprie dimore. «Il nostro è più un lavoro di sostegno
psicologico offerto soprattutto per i più anziani, quelli che sono più legati
al territorio, affinché non si sentano abbandonati» spiega un coordinatore del
Centro di Volontariato per la Ricostruzione di Minamisoma. Molti volontari
raccontano che, entrando nelle case, trovano ancora i giornali di quel
terribile 11 marzo 2011. Avvicinandosi alla centrale nucleare la rassegnazione
della popolazione evacuata viene misurata proporzionalmente con l’evidente
stato di abbandono della zona: linee ferroviarie ricoperte di vegetazione,
semafori che non funzionano, asfalto degradato. Aumenta anche il silenzio,
interrotto ogni tanto dal grugnito di qualche maiale inselvatichito o dal
muggito di una mucca. «Nutrendosi di tuberi o di erba, il loro corpo si è
contaminato di isotopi radioattivi; non potendo essere di alcuna utilità
alimentare per l’uomo, vengono lasciati liberi di scorrazzare per la zona» dice
un contadino di Minamisoma. A Tomioka, la cittadina a soli tre chilometri dalla
centrale, tutto è rimasto esattamente come il giorno in cui lo tsunami ha
travolto la vita dei suoi abitanti: bottiglie di birra aperte sui tavoli dei
ristorantini, orologi fermi all’ora della tragedia, camere da letto con i
materassi, abitazioni sventrate da auto in balìa dell’ondata di piena.
Ciò che più
sconcerta, però, non è la distruzione perpetrata dagli elementi naturali, ma
l’esatto contrario. Mano a mano ci si allontana dalla costa i villaggi sono rimasti indenni sia dallo
tsunami che dal terremoto. Una fortuna, si potrebbe pensare! Ed invece no: le
correnti atmosferiche, incanalandosi nelle strette vallate, hanno trascinato
per decine di chilometri verso l’interno la nube radioattiva sprigionatasi dai
tre reattori della centrale di Fukushima contaminando intere regioni. Capita,
quindi, di passare in villaggi come Iitate le cui case, perfettamente intatte,
sono state abbandonate trasformando quella che era una meta turistica da
cartolina, famosa per le mandrie di mucche al pascolo, in un paese fantasma.
Per cercare di decontaminare la zona, le ruspe raschiano il suolo circostante
per una profondità di venti centimetri portando la terra dragata in appositi
siti sperando di trovare una soluzione per eliminare le scorie radioattive di
Cesio 137 in essa contenute. Un lavoro immane che è già stato portato a termine
nei cortili dei plessi scolastici attorno alla città di Fukushima. «Qui ci si è
limitati a depositare il terreno superficiale in strati profondi del sottosuolo
ricoprendolo poi con uno strato di terra incontaminata» afferma un abitante del
luogo. Nel frattempo decine di migliaia di persone sono state trasferite nelle
cosiddette case temporanee. Più che case sono dei container in cui ogni
famiglia deve adattarsi a vivere in stanze di pochi metri quadrati a stretto contatto
con i vicini. E, cosa più demoralizzante, tutti sanno che non saranno
temporanee. Mentre gli anziani si sono rassegnati a passare gli ultimi anni
della loro vita in questa precarietà, i giovani, sapendo che le aree off limits
di Fukushima lo saranno per decenni, appena possono cercano di emigrare.
Ma anche
chi è potuto rimanere nei propri villaggi ha problemi di sopravvivenza, in
particolare i contadini. La paura (giustificata, ma anche spesso immotivata)
nel consumare i prodotti della terra provenienti da Fukushima, ha portato
l’agricoltura della provincia ad una crisi senza precedenti con perdite di
fatturato tra il 20 ed il 50% rispetto agli anni precedenti il 2011.
Molti si sono arresi e se ne sono andati di propria volontà; chi si
ostina a rimanere deve fare i conti anche con l’ostilità della comunità verso
la protesta antinucleare. Sembra un paradosso, ma nonostante quello che è
accaduto a Fukushima, il movimento antinucleare non ha molto seguito tra la
società contadina locale timorosa che alzare la voce possa indurre l’opinione
pubblica a pensare che il problema contaminazione sia più grave di quanto si
dica, portando quindi ad un’ulteriore contrazione dei consumi. Ne sanno
qualcosa Shigeki Oota e sua moglie Iwasa Miko, che nel villaggio di Hippo si
dedicano alla produzione di miso, la
salsa usata per condire le verdure. Nonostante Hippo si trovi nella provincia
di Miyagi, il fall out radioattivo è giunto fin qui. «Dopo l’incidente la
comunità si è divisa in due» spiega Iwasa Miko; «chi avrebbe voluto lottare
contro il nucleare si è trovato a combattere contro la parte più conservatrice,
rappresentata dai contadini del luogo, che preferivano evitare di sollevare il
problema contaminazione». Alla fine molti hanno abbandonato la valle, ma non
gli Oota che, con i loro quattro figli, hanno continuato a esprimere le loro
idee sino ad incontrare una certa solidarietà anche tra i più esitanti. Oggi ad
Hippo si è riusciti ad installare un contatore Geiger e, come in molte altre
parti della provincia di Fukushima, ad ogni raccolto un campione di prodotto
viene esaminata la quantità di cesio 137. La stessa diffidenza verso il
movimento antinucleare l’ha trovata Sachiko Goto, che nella sua fattoria a
pochi chilometri dalla città di Fukushima, coltiva pesche e mele con metodi
biologici. Sachiko, fortemente impegnata nel movimento antinucleare sin dalla
metà degli anni Ottanta, imputa l’indifferenza della popolazione al fatto che «la centrale di Fukushima ha impiegato migliaia
di persone durante la sua costruzione, durante il suo funzionamento e anche
oggi, con la fase di contenimento, offre lavoro un numero elevato di locali». A
differenza degli altri contadini del luogo, i Goto hanno limitato le perdite
grazie alla loro scelta di mercato: vendendo principalmente a privati
bypassando le grandi catene alimentari e le cooperative, sono riusciti a creare
un legame di fiducia con i loro clienti. «Rispetto agli anni scorsi abbiamo
perso il 30% dei clienti; molti di loro hanno diminuito i quantitativi
richiesti perché hanno preferito non fare mangiare la nostra frutta ai loro
bambini. Li capisco». La Tepco, la compagnia elettrica che gestisce la centrale
di Fukushima, ha risarcito per il 50% le perdite dei contadini dell’area a
differenza di quanto successo a Koryama, dove Yasuhiko Niida gestisce la
Kimpou, una delle pochissime aziende in Giappone che fabbrica sake con metodi biologici utilizzando
esclusivamente riso come materia prima. «Nel 2011 la nostra azienda famigliare
ha compiuto 300 anni. Avevamo in progetto festeggiamenti e grandi progetti per
il futuro: a causa dell’incidente di Fukushima abbiamo rischiato di chiudere»
spiega Niida. Alla fine, però, la Kinpou è sopravvissuta alla crisi e,
nonostante la flessione del 20% delle vendite, non ha licenziato nessuno dei
venti dipendenti. Dopo aver traghettato la sua azienda al di fuori dalle acque
torbide della crisi, Yasuhiko Niida si è posto un secondo obiettivo:
«convincere, entro il 2025, anno del mio sessantesimo compleanno, tutti i
contadini della zona a coltivare riso completamente biologico». Oota, Goto e
Yasuhiko: tre famiglie che sono riuscite a sopravvivere all’insidia delle
radiazioni. Come loro ve ne sono molte altre in Giappone. Rappresentano la
speranza, il futuro ed il modello per le prossime generazioni.
Copyright ©Piergiorgio Pescali
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