Nei caldi week end estivi la spiaggia di Numanosawa veniva presa
d’assalto dalle famiglie della regione di Fukushima. Era un modo per combattere
l’afa, ma anche per approfittare della gita per comperare i prodotti biologici coltivati
dalle numerose aziende agricole famigliari della zona. Le torri di
raffreddamento della centrale di Fukushima Daiichi che facevano da sfondo al
paesaggio, non destavano preoccupazione. Erano quarant’anni che gli abitanti
convivevano con esse e la presenza di un impianto ad energia nucleare anziché uno
funzionante a carbone, aveva assicurato un grado di inquinamento atmosferico e del
terreno inferiore a quelli registrati in altre parti del Giappone, permettendo
a pesche e nashi di garantirsi la fama di genuinità. Le Fukushima no momo, le pesche di Fukushima, erano famose a tal punto
che gli attenti clienti giapponesi, erano disposti a pagare qualche yen in più,
pur di portare in tavola i succosi frutti di questa regione, la quarta per
importanza agricola del Giappone. I catastrofici eventi dell’11 marzo 2011,
però, hanno sconvolto tutte queste sicurezze e, con esse, anche la vita di
centinaia di migliaia di cittadini. Ora i sei reattori atomici di Fukushima
sono circondati per una trentina di chilometri da interi villaggi disabitati,
fattorie in rovina, strade deserte. Il frutteto di Hidehito Oyama, nella
cittadina di Namie, presso cui avevo soggiornato alcuni anni fa, è abbandonato.
La frutta, marcita sugli alberi è caduta sul terreno contaminato, mentre le
onde che lambiscono la spiaggia di Numanosawa contengono gli elementi
radioattivi rilasciati dalla fusione del reattore nucleare. «La nostra famiglia ha investito tutto ciò
che aveva per avviare la fattoria» mi dice Hidehito, ora ospite con moglie
e figli presso un centro di accoglienza a Yokote; «Abbiamo perso tutto e anche ammesso che in futuro ci permettano di
tornare, chi comprerebbe i nostri prodotti?». Per tre mesi la TEPCO , la compagnia che ha
in gestione l’impianto di Fukushima, si è ostinata ad affermare che i valori di
radioattività rilasciati nell’atmosfera non avevano raggiunto livelli
allarmanti. Solo all’inizio di giugno l’agenzia governativa di sicurezza nucleare
ha svelato quello che gli scienziati del Nuclear Information Center (NIC), l’organizzazione
che più di
tutte e prima di tutte si è battuta affinché i giapponesi potessero disporre di
un’informazione indipendente e il più possibile accurata sui rischi del
nucleare, avevano sempre sostenuto: il
combustibile fissile aveva perforato le pareti di tre reattori già cinque ore
dopo l’arrivo dello tsunami e i dati di radioattività erano il doppio rispetto
a quelli ufficialmente dichiarati. «Il
dramma di Fukushima, a parte le conseguenze sulla popolazione e sull’ambiente,
ha avuto però il merito di riaprire il discorso sul futuro energetico del
Giappone dopo che, per cinquant’anni, i governi del paese avevano intrapreso la
via del nucleare senza voler considerare eventuali alternative» spiega Hisao
Toshiharu, membro del NIC.
Il 10 maggio Naoto Kan ha
annunciato la storica decisione di rivedere il piano di sviluppo energetico del
Giappone dopo che, nel 2010, la
Dieta aveva approvato la proposta di raddoppiare la potenza
nucleare giapponese per raggiungere il 50% dell’energia totale consumata dalla
nazione. E d’improvviso i giapponesi si sono eletti un nuovo eroe: Tetsunari
Iida che, dopo un passato di ingegnere nucleare si è convertito allo sviluppo
delle fonti di energia rinnovabile fondando l’Institute for Sustainable Energy
Policy (ISEP). Iida ha un obiettivo ambizioso: far sì che, entro il 2050,
l’intero consumo energetico del Paese provenga da fonti rinnovabili: «Attualmente il Giappone produce solo l’8% di
energia “verde”» mi spiega, «Abbiamo
però un potenziale di energia eolica enorme grazie alla lunga linea costiera
lambita dai venti, a cui si può associare l’energia solare e quella geotermica».
I calcoli dell’ISEP sono precisi: le 54 centrali nucleari disseminate sul
territorio producono, a pieno regime, 48,96 GW, mentre la sola installazione di
turbine eoliche potrebbe generare un’energia pari a 150 GW. Ulteriori 69-100 GW
potrebbero essere prodotti dagli impianti solari e altri 14 GW convogliando
l’energia delle oltre 28.000 sorgenti termali che bucherellano la superficie
dell’arcipelago. L’esempio da seguire è la Legge sulle Energie Rinnovabili
adottata in Germania, la quale obbliga
le compagnie elettriche a comprare tutta l’energia prodotta da impianti ad
energia verde a costi fissati dallo stato: In questo modo il paese europeo è
riuscito, in soli 10 anni, a passare dal 10 al 16% di energia prodotta da fonti
rinnovabili.
E grazie all’incidente
nucleare i giapponesi hanno riscoperto un’altra pratica a cui non sono mai
stati abituati: il setsuden, il
risparmio energetico. Mentre le grandi compagnie nipponiche hanno da anni
sposato una politica attenta all’ambiente, nella sfera privata i giapponesi non
hanno alcuna coscienza di cosa sia il risparmio energetico. Dopo l’11 marzo,
però, una massiccia campagna per un consumo oculato dell’energia, ha cominciato
a dare i suoi frutti: «i giapponesi si
sono resi conto che è possibile ridurre i consumi senza sostanzialmente
intaccare il loro stile di vita.» afferma Noriyuki Takayama, professore di
Economia alla Hitotsubashi University di Tokyo.
Ma si può
parlare di un “effetto Fukushima” o è ancora troppo presto? Antony Froggat, della Chatham House, un’organizzazione inglese
che si occupa di analisi energetiche internazionali, afferma che un cambiamento
della politica energetica giapponese potrebbe avere ripercussioni mondiali: «Il nucleare è utilizzato da 30 stati
fornendo solo il 6% dell’energia totale prodotta sul pianeta. Il 75% di questo
tipo di energia viene prodotta in sei nazioni: Stati Uniti, Francia, Giappone,
Germania, Russia e Sud Corea. E’ quindi relativamente semplice sostituire il
nucleare con altre sorgenti di energia pulita.» Ma non tutti condividono
l’idea di Froggat. Il Breakthrough Institute, un’associazione di ricerca
energetica ambientalista di ispirazione liberale, afferma che la trasformazione
delle fonti energetiche tradizionali a quelle rinnovabili, sarebbe troppo
costosa. «Per costruire impianti solari
che producano 203 GW di energia servono mille miliardi di dollari contro i 375
miliardi necessari per avere 152 GW di energia eolica.» asserisce Michael
Shellenberger, direttore dell’istituto americano. Un costo che, a detta dei
detrattori dell’opzione 100% energia verde, andrebbe a ripercuotersi sui
consumatori giapponesi in modo insostenibile. L’idea che le fonti di energia
rinnovabile siano ancora antieconomiche, trova sostegno anche tra il noto
giornalista ecologista inglese George Monbiot: «La domanda energetica continuerà ad essere sempre più elevata e
dovremmo contare su fonti sicure, economiche e a basso impatto ambientale. Le centrali
energetiche rinnovabili sono sicuramente ideologicamente attraenti, ma ancora
troppo costose, non sufficientemente efficienti e hanno un impatto sia ambientale
che visivo troppo elevato.» Le
potenti lobby direttamente collegate all’industria nucleare hanno profondi
agganci con il Ministero dell’Economia e dell’Industria giapponese contribuendo
pesantemente a far prevalere la logica che il nucleare non potrà mai essere
completamente sostituito dalle fonti energetiche rinnovabili. Ma l’impatto
emotivo e il forte senso di responsabilità causato dall’incidente di Fukushima,
potrebbe essere la molla per convincere queste stessi colossi a investire su
progetti potenzialmente meno pericolosi e invasivi sulla salute pubblica.
Copyright ©Piergiorgio Pescali
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