La stazione
di Tomioka è ancora devastata dallo tsunami che nel marzo 2011 ha colpito le
coste settentrionali del Giappone. Una famiglia è tornata nella cittadina e una
signora ricorda emozionata i nomi delle famiglie che abitavano le case ormai
sventrate. Tre persone con il cartellino ufficiale di riconoscimento
ispezionano la zona con il contatore Geiger: 0,04 milliSievert per ora, un
valore che rende la zona inabitabile (la dose media di radiazioni assorbite da
una persona è di 2-3 milliSievert all’anno). Siamo a tre chilometri dalla
centrale nucleare di Fukushima Uno i cui reattori fusi sprigionano ancora
quantità considerevoli di radiazioni. Qui, come in altre aree attorno alla
centrale, nessuno può oramai abitarci e nessuno ci abiterà per chissà quanti
anni. Per chilometri tutto attorno nulla può essere coltivato e la regione è
dominio degli animali che si sono inselvatichiti e moltiplicati senza controllo.
Maiali, cani, mucche, gatti mangiano ciò che trovano nel terreno assorbendo nel
loro corpo dosi massicce di ioni radioattivi che, poco a poco, mitraglieranno
il loro DNA, deformandolo e condannandoli alla morte. Il fall-out della
centrale di Fukushima è stato più devastante dello tsunami e del terremoto: a
Iitate, una quarantina di chilometri all’interno, non vi sono segni delle
devastazioni naturali, ma le tende che occludono le finestre delle case dimostrano
che gli abitanti hanno orami abbandonato ogni speranza e se ne sono andati. Un
tempo Iitate, come altri villaggi della zona, era famosa per l’ottima carne
delle mucche che si allevavano e la valle era punteggiata di ristorantini e
fattorie. Ma oggi, quegli stessi monti che facevano di questa regione un
paesaggio idilliaco, convogliano i venti che portano i radionuclidi liberatisi
dalla centrale nucleare: tutti gli animali sono stati uccisi e le ruspe stanno
raschiando il terreno per cercare di decontaminarlo dal cesio 137.
Più
all’interno, nelle campagne attorno alla città di Fukushima, un tempo
considerate il serbatoio dell’agricoltura biologica del Giappone, Sachiko Goto
continua a coltivare mele e pesche. Lei è da sempre attiva nel movimento
antinucleare, ma nonostante l’incidente del 2011 ammette che sono pochissimi i
contadini che condividono le sue opinioni: «La centrale di Fukushima ha dato e continua
a dare lavoro a migliaia di persone: prima per il suo mantenimento, ora per la
sua decontaminazione. Pochi, in Giappone, si schiererebbero con decisione
contro il nucleare» mi dice offrendomi una delle sue pesche. Lei si considera
fortunata: rispetto agli altri coltivatori che vendono a centri di
distribuzione e a cooperative, ha sempre privilegiato la vendita diretta e
questo le ha permesso di limitare i danni: «Abbiamo perso il 30% dei clienti;
comprendo le loro preoccupazioni, ma ogni raccolto viene controllato
accuratamente e non vi è traccia di elementi radioattivi nei nostri prodotti»
afferma mostrandomi il certificato rilasciato dal locale ente di controllo
comunale. La Tepco, nonostante non abbia mai mandato alcun tecnico a controllare
il terreno, ha risarcito il 50% dei mancati guadagni.
L’alta
qualità ha salvato anche la fabbrica di sake
Kimpou di Yasuhiko Niida, la cui
famiglia è tra le più antiche produttrici di sake in Giappone: «Il 2011 era una data importantissima per noi: la
nostra fabbrica avrebbe compiuto trecento anni di attività; la nube di
Fukushima ha offuscato non solo i nostri sogni, ma lo stesso nostro futuro»
afferma Niida. Nonostante le difficoltà e la perdita secca del 20% di
fatturato, Niida ha preferito non licenziare nessuno dei suoi venti dipendenti.
Il segreto del successo della sua distilleria sta nell’uso di materie prime
completamente biologiche, una rarità nel campo della produzione di sake giapponese. «Il 10% del riso che
utilizziamo per produrre il sake lo
coltiviamo noi stessi senza utilizzo di concimi artificiali e fertilizzanti,
mentre il restante 90% è riso biologico che compriamo da produttori fidati.
Inoltre a turno tutti i nostri dipendenti, compresi gli impiegati, devono
andare in risaia per conoscere ogni passo della nostra produzione». Allontanate
le nubi oscure della crisi, ora Niida ha un sogno: «convincere entro il 2025,
quando compirò 60 anni, tutti i contadini di Tamura-machi a coltivare riso
biologico».
Ma non basta allontanarsi dalla provincia di Fukushima per vedere
svanire gli effetti della nube radioattiva: a Hippo, un minuscolo villaggio di
settecento anime tra i monti della provincia di Miyagi, le correnti
atmosferiche hanno fin qui trasportato gli atomi della centrale nucleare, distante
una sessantina di chilometri. La famiglia Oota produce miso, la salsa utilizzata per insaporire la verdura. Il marito,
laureato in scienze politiche a Tokyo, si è trasferito in questo luogo sperduto
assieme alla moglie, anch’essa nata e cresciuta nella capitale e qui vivono con
i loro quattro figli. «La fuoriuscita di isotopi radioattivi da Fukushima ha
allarmato tutti nel villaggio, ma i contadini si sono rifiutati di riconoscere
il problema per paura che i loro prodotti potessero essere rifiutati dal
mercato» spiegano i coniugi Oota. E così la maggioranza dei nuovi residenti,
accesi antinuclearisti ed isolati dal resto della comunità, se ne sono andati.
Pochi sono rimasti e tra loro gli Oota. Dopo mesi di lotte e di litigi, però,
la comunità di Hippo ha ritrovato una certa serenità: «accettando di
riconoscere il problema della possibile radioattività ed i controlli sulla
produzione, si è riusciti a rassicurare i consumatori che, dopo un periodo di
titubanza, oggi stanno ridandoci fiducia» spiega il signor Oota. E così, come
simbolo di questa ritrovata tranquillità e come segno di speranza per il futuro
dei propri figli, quest’anno, dopo molti anni, Hippo ha celebrato il suo
matsuri nel giorno dei morti. La rinascita passa anche attraverso la morte.
Copyright ©Piergiorgio Pescali
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