Jeoung Min-jee e Jae-hwa
sono una coppia di sposi sulla quarantina con due figli, originari della
provincia di Nampo, sulla costa orientale della penisola coreana. Il padre di Min-jee
è un Eroe del Lavoro che, negli anni Ottanta, ha ottenuto il permesso di
trasferirsi con la famiglia nella capitale: «Siamo
stati fortunati; vivendo a Pyongyang abbiamo evitato gli anni peggiori della
carestia» spiega Min-jee, oggi collaboratore della Christian Friends of
Korea, una ONG statunitense che gestisce diversi progetti in Corea del Nord.
Parlare della carestia e delle difficoltà economiche del paese, oggi non è più
un tabù. «Anzi, il più delle volte è lo stesso governo ad ingigantire le cifre
della povertà e della malnutrizione per ottenere maggiori aiuti internazionali»
mi dice un funzionario della Croce Rossa. Il paese, già in continua evoluzione
sociale, politica e strutturale dal 2002, dopo la salita al potere di Kim Jong
Un ha accelerato il passo. Le condizioni economiche della nazione sono in
costante miglioramento: «L’emergenza è
terminata e le morti per fame sono quasi scomparse» afferma un delegato della
FAO in visita nella nazione, il quale mi ricorda che, tra il 1995 e il 2011,
Corea del Sud, Cina, Stati Uniti e Giappone hanno donato complessivamente 11,8
milioni di tonnellate di aiuti alimentari. Sempre secondo l’organismo
internazionale, nel 2011 la produzione di derrate alimentari in Corea del Nord
è aumentata dell’8,5% rispetto all’anno precedente e nel 2012 l’incremento
dovrebbe assestarsi attorno all’8%. «Nonostante
la produzione di cereali lavorati sia salita a 4,66 milioni di tonnellate, ogni
anno la nazione deve importare quasi 800.000 tonnellate di cibo per far fronte
allo spettro della fame»» mi dice Hajime Izumi, direttore del Centro di
Studi Coreani alla University of Shizuoka, in Giappone. Questa dipendenza,
pesantissima alla metà degli anni Novanta, quando il crollo del Comecon aveva
privato Pyongyang degli aiuti garantiti dai paesi socialisti, è andata mano a
mano riducendosi, ma ha costretto Kim Jong Il a diminuire, e poi ad
interrompere, la distribuzione delle razioni di cibo. Una vera rivoluzione
nella vita dei nordcoreani che, per la prima volta dalla fondazione della
nazione, si son dovuti ingegnare nel cercare altre fonti di sostentamento. Il
denaro, praticamente inutile visto che tutto (dal cibo ai vestiti, dalle
abitazioni ai servizi sociali) veniva garantito e distribuito dallo stato, cominciò
ad acquisire importanza ed oggi almeno il 75% del salario medio di una famiglia
nordcoreana proviene dall’economia privata. Non è facile accorgersene, ma in
ogni quartiere di Pyongyang e in ogni città della Corea del Nord oggi sono
stati aperti ristorantini e birrerie gestite privatamente da famiglie. Poco
distante dalla stazione ferroviaria, in una traversa di Chollima Street, la
famiglia Son gestisce, con un certo successo, un locale frequentato da
residenti. Con 5 euro mangio pulgoki (carne
alla brace), raengmyeon (una sorta
zuppa di capelli d’angelo con verdure) e dolce. «Quasi tutti i giorni il ristorante è pieno» afferma con orgoglio
Gum-sun, la proprietaria del locale. Come lei, migliaia di famiglie hanno
oramai intrapreso attività in proprio grazie alla fitta rete di commerci, più o
meno leciti, con il mercato cinese. In ogni città nordcoreana oramai esistono
due mercati paralleli: i jangmadang, quelli
ufficiali, e i golmokjang, non
riconosciuti dalle autorità, ma da esse tollerati. E’ in questi ultimi che si concludono
la maggior parte degli scambi commerciali. A Sinuiju, al confine con la Cina,
il golmokjang Chaeha-dong, aperto
dopo le riforme economiche del 2002, si è ingrandito talmente che nel 2013 è
stato trasferito in periferia ed ora si estende su un’area doppia rispetto al
precedente. «Mercati come questo sorgono
in ogni città al confine con la Cina e si stanno espandendo anche nelle
province interne» afferma Fu Xue, una commerciante cinese che trascorre
quasi tutto il suo tempo lungo il confine sino-coreano vendendo mercanzia ai
nordcoreani. «Un tempo ero io a imporre
il prezzo, oggi i coreani trattano e il guadagno si assottiglia». Un segno,
questo, che l’economia di mercato sta insinuandosi nella mentalità dei
nordcoreani.
Gironzolo tra i tavolini
che espongono piccoli elettrodomestici, scarpe, vestiti e, naturalmente, un
assortimento incredibile di alimentari. Tutto viene pagato in yuan o in
dollari. Un chilo di riso costa sui 5 yuan, pari a 6.500 won, quasi quanto lo
stipendio mensile di un impiegato nordcoreano che, in media, guadagna 7.000 won,
equivalenti a 51 dollari al cambio ufficiale, ma che crollano a soli due
dollari al mercato nero. «Kim Jong Un ha
reintrodotto la distribuzione delle razioni» spiega Kim Yong-bin,
funzionario del Dipartimento Internazionale del Partito del Lavoro Nordcoreano,
che continua: «Attualmente il 40% della
popolazione riceve razioni sufficienti, ad altri vengono date due o tre volte
l’anno, ma speriamo, nel giro di poco tempo, di estendere la distribuzione a
tutto il popolo in modo che i coreani non debbano ricorrere a commerci privati
per poter soddisfare le proprie necessità». La dichiarazione di Yong-bin dimostra
non solo quanto stia cambiando l’atteggiamento del governo nei confronti dei
propri cittadini, ma anche il riconoscimento di un’economia alternativa
protocapitalista sempre più rilevante che va di pari passo con un allentamento
del controllo sociale. Praticamente ogni famiglia nordcoreana possiede un
lettore DVD e, nonostante sia formalmente proibito, i telefilm e le soap opera
sudcoreane sono un bestseller nei mercati. E con l’avvento dei telefonini (si
calcola che tra 1,5-2 milioni di nordcoreani abbiano un cellulare) e di
internet, il governo ha praticamente smesso di censurare le notizie provenienti
dall’estero. «Ormai più nessuno in Corea
del Nord crede che nel Sud si muoia di fame e si viva peggio che al Nord»
spiega un nordcoreano che viaggia spesso all’estero per lavoro. La propaganda,
un tempo incentrata a biasimare la dittatura sudcoreana e a dipingere un
governo che opprimeva ed osteggiava la volontà di riunificazione espressa dal
popolo (il che era vero fino alla fine degli anni Novanta), oggi è praticamente
scomparsa dai media nordcoreani, semplicemente perché è chiaro che non sarebbero
più creduti.
La diffusione delle
notizie, ha permesso anche di creare una sorta di social-community,
incoraggiando singoli cittadini a muovere critiche contro le autorità locali. Se
un tempo il governo centrale avrebbe semplicemente ignorato o, peggio,
considerato le accuse come un atto di offesa al regime, oggi queste vengono
perlomeno tollerate e, a volte, ascoltate. Numerose commissioni d’inchiesta
hanno verificato la fondatezza delle denunce e gli amministratori sono stati
sollevati dal loro incarico. Del resto non è più possibile nascondere alcune
evidenti realtà: a Pyongyang arrivano continuamente uomini d’affari che nei
fine settimana giocano a golf, il mastodontico hotel Ryugyong, iniziato negli
anni Ottanta e abbandonato per due decenni, è oggi un hotel di lusso gestito
dalla catena tedesca Kempinski, mentre a Rason i cinesi giocano d’azzardo nel
casinò dell’Emperor Hotel, dove una camera costa 500 dollari a notte. Solo una
decina d’anni fa tutto questo sarebbe stato bollato come esempio di decadimento
della società capitalista.
Le aperture volute da Kim
Jong Il e accelerate dal figlio hanno avuto ripercussioni anche sui diritti
umani. Sebbene le organizzazioni preposte al loro controllo continuino ad
accusarne il deterioramento, le evidenze dei fatti mostrano un segnale in
controtendenza. Da una quindicina d’anni, infatti, le condanne non sono più
collettive o famigliari, bensì individuali. Questo ha portato le autorità a
punire il singolo cittadino, mentre la sua famiglia, un tempo trasferita assieme
al colpevole nei campi di rieducazione, oggi continua a rimanere libera anche
se soggetta a restrizioni (trasferimenti coatti, lavori socialmente meno ambiti
e retribuiti, proibizione di vivere e frequentare le città).
In questa terra, la Corea
del Nord non è certamente il migliore dei mondi in cui vivere, ma non è neppure
il peggiore.
Copyright ©Piergiorgio Pescali
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