L’ennesima guerra mancata nella penisola coreana ha visto
vincitori entrambe i principali protagonisti: Corea del Nord e Stati Uniti. La
prima ha ottenuto il riconoscimento di unica potenza nucleare e militare in
grado di impensierire Washington, la seconda è riuscita a cogliere l’occasione
per dislocare il sistema missilistico che Mosca e Pechino tanto avevano
osteggiato e che, per ragioni diplomatiche, non era mai riuscita a far
accettare al Giappone.
La Cina è, naturalmente, furiosa con Pyongyang per questa mossa
che le è costata la supremazia militare nella regione.
E Pyongyang sa bene che, dopo le condanne cinesi ai test
nucleari e l’approvazione delle sanzioni invocate dall’ONU, non può più fidarsi
ciecamente del vicino. Così, il paese sta cercando di diversificare i propri
partner commerciali guardando ad ovest, in particolare all’Iran, al Pakistan e
all’Europa. La dipendenza nordcoreana dalla Cina è pesantissima: nel 2012 il
70% del commercio totale di Pyongyang, stimato attorno agli 8 miliardi di
dollari, era rivolto alla Cina. Due anni prima era del 57%. Per contro, stanno
aumentando considerevolmente le transazioni con la Corea del Sud, che hanno raggiunto
gli 1,97 miliardi di dollari. In particolare Pyongyang ha importato merci dal
Sud pari a 896 milioni di dollari (il 13,4% in più rispetto al 2011),
esportando verso Seoul 1,07 miliardi di dollari (il 19,3% in più rispetto al
2011). Un segno, questo, che testimonia, più di quanto facciano le
dichiarazioni dei governi di Kim Jong Un e di Park Geun-hye, quanto stia
cambiando l’atteggiamento reciproco di Pyongyang e Seoul.
I media nordcoreani, un tempo infarciti di propaganda
antisudcoreana, oggi hanno sensibilmente smorzato i toni: «Sono ormai moltissimi i nordcoreani che sentono le notizie ascoltando programmi
radio provenienti dalla Corea del Sud e osservano la vita quotidiana del sud
guardando dvd sudcoreani e cinesi» mi dice Jane Kim, coordinatrice della
ONG East West Coalition, che continua: «Oramai
le notizie possono arrivare senza il filtro della censura ed il governo sa che,
continuando a dipingere una Corea del Sud povera socialmente ed economicamente,
perderebbe solo la propria credibilità. Quindi ha semplicemente deciso di
evitare di parlarne».
Sebbene sia formalmente proibito ascoltare programmi trasmessi
dall’estero e guardare video non approvati dal governo, le autorità chiudono
due occhi, ben sapendo che è oramai impossibile arginare l’inondazione di
flussi mediatici e commerciali dall’esterno. Ogni città della nazione ha uno o
più mercati golmikjang, i mercati non
ufficiali, ma tollerati dal governo, che permettono ai privati di vendere merci
proprie. A Hyesan, lungo il confine settentrionale con la Cina, la guida mi permette
di visitarne uno. A differenza di Sinuiju, la principale città nordcoreana posta
sulla frontiera con la Cina, dove le autorità locali hanno raddoppiato gli
spazi destinati ai golmikjang, qui le
bancarelle sono assiepate l’una con l’altra, ma i prodotti esposti ed i prezzi
(tutti in yuan o in dollari) sono simili: un paio di scarpe costa 250 yuan, un
paio di pantaloni 80, un soprabito 200 yuan. Il settore riservato agli
alimentari è quello più nutrito. Il ripristino della distribuzione alimentare
voluto da Kim Jong Un nel gennaio 2012 ha, fino ad ora, interessato solo il 40%
della popolazione. «Sono soprattutto alti
funzionari di partito, coloro che abitano nelle città, famiglie di poliziotti,
di militari e operai che lavorano nei complessi legati alle Forze Armate» spiega
un dirigente della FAO, in visita a Pyongyang. E’ lui stesso ad ammettere che
la situazione economica del paese sta migliorando costantemente dal 2002,
nonostante la Corea del Nord abbia necessità di ricevere annualmente almeno
800.000 tonnellate di cibo per scongiurare la fame. «Il maggior donatore di aiuti alimentari a Pyongyang è Seoul, che, in
16 anni, dal 1995 al 2011, ha spedito al nord 5 milioni di tonnellate di aiuti,
seguita dalla Cina, con tre tonnellate e dagli Stati Uniti, 2.400.000
tonnellate». Paradossalmente è proprio il governo nordcoreano a sciorinare
dati più negativi di quanto sia la realtà. «E’
un espediente per ottenere più aiuti, ma il miglioramento delle condizioni di
vita dei nordcoreani è ormai troppo evidente per poter continuare a giocare al
ribasso» afferma un impiegato della Croce Rossa. Sacche di malnutrizione
esistono ancora, ma la morte per fame, che nella seconda metà degli anni
Novanta aveva mietuto almeno 600.000 vittime, oggi è scongiurata.
E’ proprio da quella pesantissima crisi, che la società
nordcoreana ha cominciato a cambiare nel suo interno: l’interruzione della
distribuzione alimentare, colonna portante dell’economia sociale del paese, ha
costretto i coreani a cercare altre forme di sussistenza, trovandole nel
denaro. Oggi il 75% delle entrate di una famiglia media, proviene da forme di
economia privata. In ogni città del paese fioriscono ristorantini, bar, negozi
a gestione famigliare. A Wonsan ne frequento uno, particolarmente alla moda:
una birreria dove giovani e anziani si radunano giocando a ping pong. Qui si
discute, si guarda la televisione, si parla al telefonino con gli amici e, a
volte, si continua la conversazione nel vicino ristorante dove, per 3-5 euro, si
possono assaggiare piatti giapponesi cucinati con ingredienti provenienti dalle
bancarelle dei golmikjang. Chiedo
come possono, con lo stipendio che guadagnano, permettersi tutto questo. Un
impiegato nordcoreano riceve in media 7.000 won al mese, una bella cifra se il
cambio ufficiale di 135 won per dollaro fosse quello reale. In realtà i 7.000
won si riducono a soli due dollari con il cambio del mercato nero. E visto che
gli scaffali dei negozi statali, dove un chilo di riso costerebbe solo 44 won
al chilo, sono spesso vuoti, i nordcoreani devono rivolgersi ai mercati
privati, dove lo stesso chilo di riso costa tra i 4.000 ed i 6.000 won.
Eppure in molte parti della Corea del Nord, il guadagno medio di
una famiglia è di 100.000 won al mese. Come è possibile? «Semplice» mi risponde una ragazza nordcoreana che lavora come
aiuto cameriera in un ristorante privato: «ci
siamo ingegnati e abbiamo sostituito lo stato dove questo non arrivava».
Così un piccolo commerciante che ha la possibilità di gestire un negozio di
alimentari, riesce anche a guadagnare tra i 300 ed i 500 dollari al mese e la
cameriera riesce a portare in famiglia quasi 50 dollari. Si spiega così anche
il proliferare di telefonini, molti dei quali Nokia e Apple, utilizzati da
quasi due milioni di nordcoreani. «In
teoria non sarebbe possibile effettuare chiamate all’estero, ma chi abita al
confine con la Cina o chi lavora a Kaesong non ha problemi ad utilizzare linee
internazionali. Così le notizie trapelano e si diffondono in poche ore in tutto
il paese» sostiene un diplomatico occidentale residente a Pyongyang il
quale, però, conferma la difficoltà che hanno analisti e politici nel seguire
le vicende interne del Partito dei Lavoratori di Corea: «E’ una cortina impenetrabile e solo pochissime persone sono a
conoscenza di ciò che avviene nel suo interno».
Lo sa bene Alejandro Cao de Benòs de Les y Peres, lo spagnolo
delegato speciale del Comitato per le Relazioni Culturali, che il 18 settembre
2010, in una lettera indirizzata a El Mundo affermava che «Kim Jong Un è totalmente sconosciuto sia dalla popolazione che dalle
autorità della RPD di Corea. In 18 anni di lavoro non ho mai visto una foto o
letto alcunché su di lui. Se esistesse, non sarà mai accettato dal popolo o
dall’esercito».
Il 27 settembre, nove giorni dopo la lettera di Alejandro, Kim
Jong Un venne ufficialmente presentato come successore di Kim Jong Il. E,
naturalmente, venne immediatamente acclamato dal popolo e dall’esercito.
La giovane età e l’esperienza scolastica passata in Svizzera,
fanno di Kim Jong Un un leader su cui riporre ottime speranze per il futuro
della Corea del Nord. I suoi discorsi, molto diversi da quelli del padre, sono
più rivolti al popolo che all’apparato. Più volte ha approfittato delle
telecamere e della radio per rimproverare amministratori per lo scarso impegno
profuso nel loro lavoro arrivando, a volte, a sollevarli dal loro incarico. La
corruzione che coinvolge i funzionari, specialmente nelle amministrazioni
provinciali e comunali, è ormai endemica e Kim Jong Un sta cercando di
convincere il popolo a denunciare gli abusi. Viceversa ha dato prova di
conoscere lo stato di povertà in cui versano molte regioni della Corea del
Nord, impegnandosi nel migliorare le loro condizioni economiche e sociali
aprendo il paese a nuove riforme.
Anche nel campo dei diritti umani la situazione, da una
quindicina d’anni, sta migliorando: la colpa di un cittadino nordcoreano un
tempo coinvolgeva tutta la famiglia che veniva inviata ai campi di
rieducazione; oggi, invece, rimane circoscritta all’accusato. E se prima il
dissenso politico veniva punito con l’accusa di tradimento, oggi da più parti
cominciano a levarsi critiche, anche se non dirette contro la leadership della
famiglia Kim. In alcune province si sono anche organizzate proteste popolari
che dimostrano quanto incisivi siano i cambiamenti in atto nel paese. Kim Jong
Un ha ereditato dal padre una Corea del Nord in fase di transizione. Spetterà a
lui il compito più difficile: quello di traghettare la Corea del Nord verso un
sistema economico e sociale più stabile.
Copyright ©Piergiorgio Pescali
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