Myanmar:
accelerazione democratica e crisi sociali
di Piergiorgio
Pescali
1.
Introduzione: l’irreversibilità delle riforme
Nel settembre
2012, il presidente del Myanmar, Thein Sein, ha dichiarato alle Nazioni Unite
che le istituzioni del paese «hanno intrapreso una via irreversibile verso la
transizione democratica e dei processi di riforma» [W/PO 27 settembre 2012, «President
U Thein Sein delivered an address at the 67th United Nations General Assembly»].
Durante lo stesso discorso, la massima autorità politica birmana ha avuto
parole di elogio verso Aung San Suu Kyi a motivo dei «suoi sforzi per la
democrazia», usando, ed è stata prima
volta, l’appellativo di «laureata Nobel» [ibidem].
Sono,
queste, solo due delle più importanti novità che hanno contraddistinto il corso
politico del 2012 in Myanmar. Il governo birmano sembra abbia definitivamente
abbandonato l’autoritarismo che aveva caratterizzato le amministrazioni
precedenti, accettando anche il contributo di quelli che, un tempo, erano
considerati acerrimi nemici: i partiti democratici e la loro ispiratrice, Aung
San Suu Kyi.
Ma
se politicamente ed economicamente la qualità e lo spessore delle riforme hanno
superato ogni più rosea aspettativa, resta, comunque, la grande incognita della
stabilità sociale. Da una parte la popolazione aspetta, se non la condanna
degli amministratori che, negli anni precedenti, avevano abusato del loro
potere, quanto meno un miglioramento delle condizioni di vita; dall’altra le
minoranze etniche pretendono il riconoscimento dei loro diritti. Infine, nell’inverno
del 2012, si sono aggiunte le rivendicazioni dei minatori del complesso
minerario di Monywa, stanchi del continuo sfruttamento di cui sono stati
vittime durante il periodo della giunta militare, sfruttamento che non sembra
aver fine.
Saranno
questi gli ostacoli maggiori che il governo sarà chiamato ad affrontare e
risolvere negli anni a venire.
2.
L’entrata dei movimenti democratici nell’arena politica birmana e il rischio
di egemonia della National League for Democracy
L’inizio
del 2012 è stato caratterizzato dalla svolta politica, seguita alla visita del dicembre
2011 di Hillary Clinton. Dopo le incoraggianti dichiarazioni a margine del
viaggio del segretario di stato statunitense, il governo birmano ha voluto dare
un chiaro segnale di cambiamento al fine di garantirsi la fiducia dei paesi
occidentali.
Il
5 gennaio, appena tre giorni dopo aver ordinato la liberazione di 300 detenuti politici, il parlamento ha votato a favore
della legalizzazione della National League for Democracy (NLD), il
partito in cui milita Aung San Suu Kyi. [PO 2 gennaio 2012, «Amnesty Granted»; UEC 5 gennaio 2012 «NLD party
granted to register as political party»].
La
doppia mossa, così vicina in termini temporali, è stata un piccolo capolavoro
di destrezza da parte del governo di Nay Pyi Taw (la presente capitale del
Myanmar). Tra i prigionieri politici liberati, infatti, figuravano il monaco
buddista U Gambira, leader delle manifestazioni dei bonzi del 2007 (in seguito
di nuovo incarcerato nel mese di dicembre) e numerosi membri di spicco della
Generazione 88, tra cui Ko Ko Gyi. Vale la pena ricordare che Generazione 88 è il
movimento che raggruppa ex studenti universitari che, nel 1988, organizzarono le
dimostrazioni contro la giunta militare subendone la dura repressione. Molti di
loro si rifugiarono all’estero; altri, come Ko Ko Gyi, vennero imprigionati e
torturati per anni. Gli attuali leader di Generazione 88 hanno rapporti
piuttosto tumultuosi con l’NLD, accusata di paternalismo e di dominare in modo troppo
autoritario la scena politica dell’opposizione.
La
liberazione dei detenuti politici avvenuta a gennaio, a cui ne sono seguite
altre più consistenti nel corso dell’anno, serviva, dunque, a controbilanciare
in senso democratico l’egemonia del partito di Aung San Suu Kyi. L’obiettivo
era non solo di garantire un maggiore equilibrio politico alla nazione, ma,
soprattutto, sia di dare una possibilità in più al partito di maggioranza, l’Union
Solidarity and Development Party (USDP), permettendogli di recuperare voti
in vista delle elezioni generali del 2015, sia di spaccare il blocco
dell’opposizione antigovernativa.
La
fase di democratizzazione raggiunta nel paese è comunque stata evidente nelle
elezioni suppletive del 1° aprile, quando 17 partiti politici hanno corso per
la conquista di 45 seggi rimasti vacanti dopo che, nel 2011, altrettanti
deputati dell’USDP erano stati scelti a ricoprire cariche di ministri e
viceministri all’interno del nuovo governo di Thein Sein.
Nonostante
che le elezioni suppletive di aprile abbiano interessato un numero limitato di
circoscrizioni, esse rappresentavano un importante segnale di come i votanti si
sarebbero presumibilmente comportati in una eventuale tornata elettorale priva
di filtri e censure. Gli osservatori internazionali, sebbene invitati nel paese
ad appena quattro giorni dall’apertura delle urne, non hanno riscontrato segni
di gravi irregolarità; un segnale incoraggiante nel processo di
liberalizzazione in atto in Myanmar [EMN 7 aprile 2012, «By-Election 2012
–Election Monitoring No.1», pp. 4, 5, 6].
I risultati hanno mostrato la netta prevalenza dell’NLD, che ha
conquistato 43 seggi, mentre i due seggi restanti sono stati equamente divisi
tra l’USDP e lo Shan Nationalities Democratic Party [W/EBO 24 marzo - 7
aprile 2012 «Result of 1 april By-Election Held in Nay Pyi Taw, Region and
States»].
La
nomina di Aung San Suu Kyi, eletta nella circoscrizione di Kawhmu, una città
nella regione di Yangon, ha segnato non solo una svolta epocale nella politica
birmana, ma anche, anzi soprattutto, la definitiva riconciliazione tra il
movimento d’opposizione e il parlamento nazionale. Accettando il seggio,
inoltre, Aung San Suu Kyi ha dovuto rivedere il suo netto rifiuto di giurare su
una costituzione che ha sempre dichiarato essere illegale [W/TG 2 maggio 2012, «Aung
San Suu Kyi takes oath at Burmese parliament»].
La
supremazia dell’NLD sui partiti, sia di governo che d’opposizione, potrebbe
però rivelarsi un boomerang verso lo stesso movimento. È indubbio, infatti, che
gran parte degli elettori ha votato la National League for Democracy non
per i suoi ideali, ma per l’identificazione del partito con Aung San Suu Kyi.
In molti circoscrizioni i candidati imposti dalla leadership del movimento, ed
in seguito eletti, erano sconosciuti agli stessi votanti.
Del
resto, la struttura poco democratica del partito, evidente già da tempo, si è
manifestata con la crisi (l’ennesima) culminata in ottobre con le dimissioni in
massa di 500 membri della sede di Pathein e con la fondazione, da parte di 130
transfughi, di un nuovo gruppo politico, il Democracy Network. [W/MT 2 Novembre 2012, «Democracy Network formed in
wake of Pathein’s NLD resignations»].
Il
grosso pericolo per la sopravvivenza dell’NLD, dopo il plebiscito avuto nelle
elezioni suppletive, è che il partito si chiuda ancora più in se stesso,
rifiutando ciò di cui avrebbe più bisogno: una profonda riforma politica e
strutturale per presentarsi alle consultazioni del 2015 in una veste rinnovata
e meno settaria verso le altre forze democratiche. Il gruppo dirigente dell’NLD,
che si oppone ad una transizione elettorale verso un sistema proporzionale, non
farebbe altro che aggravare il senso di emarginazione e di sfruttamento che
pervade le minoranze etniche, la cui presenza in un parlamento già dominato dall’etnia bamar, è
fortemente limitata dall’attuale sistema maggioritario.
Infine,
non va trascurato il fatto che le personalità storiche più autorevoli della
Lega Nazionale per la Democrazia, si avviano sulla settantina. La stessa Aung
San Suu Kyi, che è pur sempre tra i membri più giovani della dirigenza storica,
nel 2015 avrà settant’anni; ma ancora non si vede un ricambio generazionale in
grado di sostenere un’eventuale responsabilità governativa.
Per
di più, Aung San Suu Kyi sembra più impegnata a mantenere intatta la sua icona
di eroina, piuttosto che ad affrontare i problemi del paese. Un esempio, è
stato la cautela nel prendere posizioni nette sulle violazioni dei diritti
umani nel conflitto in atto nello stato Rakhine, una cautela che ha scalfito in
modo sempre più incisivo l’immagine della leader tra le minoranze etniche.
Non
è neppure piaciuto, agli imprenditori birmani, il suo intervento al World
Economic Forum tenutosi a Bangkok in maggio, in cui invitava gli investitori
esteri alla cautela, evitando al contempo di chiedere la completa eliminazione
delle sanzioni economiche [W/BBC 1° giugno 2012, «Suu Kyi warns against
‘reckless optimism’ on Burma reforms»]. Molti uomini d’affari birmani, che
avevano finanziato la campagna elettorale dell’NLD e della stessa Aung San Suu
Kyi, si sono irritati per quella che hanno considerato una mancanza di
riconoscenza, minacciando di ritirare il loro appoggio al partito.
È
anche in quest’ottica che occorre inquadrare il successivo viaggio di Aung San
Suu Kyi negli Stati Uniti, nel settembre 2012, quando, per la prima volta, ha
chiesto l’annullamento delle sanzioni [W/NYT 18 settembre 2012, «Myanmar’s
Opposition Leader Urges End to Sanctions»].
Colei
che la stampa birmana usava chiamare la «Lady», quando il fatto stesso di
pronunciare il suo nome esponeva al rischio di essere arrestati, forte
dell’accresciuta popolarità (grazie anche al film di Luc Besson del 2011, che
ne traccia un profilo più agiografico che storico) ha cercato di incassare
l’approvazione internazionale, approfittando della revoca, da parte del governo
di Thein Sein, del divieto di uscire dal paese.
I
suoi numerosi viaggi all’estero, inaugurati nel maggio 2012 con la visita in
Thailandia, subito seguita da un lungo tour in Europa che le ha permesso di
ritirare il Premio Nobel per la Pace ricevuto nel 1991, sono stati più un
successo personale che politico. Abituata, durante i lunghi anni di arresti
domiciliari, a ricevere solo elogi, ora Aung San Suu Kyi deve anche saper
accettare le critiche. Queste giungono sempre più numerose all’interno del suo
paese e iniziano a levarsi, seppur ancora timidamente, anche all’estero [W/FP 1°
giugno 2012, «It’s time for Aung San Suu Kyi to get serious about management»].
3.
Il primo cambiamento della squadra di governo ed i militari
Paradossalmente,
le transizioni più significative avute sino a questo momento si sono avute
proprio all’interno delle forze governative. Le dimissioni del primo vice presidente
Tin Aung Myint Oo, accettate il 1° luglio da Thein Sein, hanno spianato la
strada ai riformisti. Vale la pena ricordare che la costituzione del 2008 ha
creato due figure di vice presidenti che coadiuvano il presidente [W/IW 4
luglio 2012, «VP’s Resignation Confirmed; Replacement to be Named Next Week»].
Il
tentativo di rimpiazzare il vice presidente dimissionario con un delfino di
Than Shwe, l’ex generale Myit Swe, è stato sventato dopo la rivelazione che uno
dei suoi figli aveva chiesto e ottenuto la cittadinanza australiana [W/IW 17
luglio 2012, «Myint Swe’s VP Bid Postponed»]. Secondo la costituzione, infatti,
chi è sposato o ha figli con passaporto straniero non può ricoprire una carica
istituzionale. La clausola, creata ad hoc per impedire ad Aung San Suu Kyi di
divenire presidente del Myanmar in caso di vittoria elettorale, si è
inaspettatamente rivoltata contro i suoi stessi ideatori.
Il
ritiro di Tin Aung Myint Oo, considerato il principale rappresentante dell’ala
dura dei conservatori e dei militari che avevano appoggiato le giunte
precedenti, ha permesso al presidente di sostituire i funzionari dei dicasteri
che più si opponevano alle riforme. Sono stati così dimessi 22 membri del
governo.
Da
notare che, tra i nuovi ministri designati da Thein Sein, figura anche una
donna, la prima nella storia birmana: si tratta di Myat Myat Ohn Khin, ministro
della Sicurezza Sociale (Social Welfare) [W/M 10 settembre 2012, «Burma has
first woman cabinet member in over 60 years»].
Ma
il rimaneggiamento di governo non si è limitato a rafforzare la squadra di
riformisti: Thein Sein, per prevenire attacchi dall’esterno e da eventuali «falchi»
presenti nella sua stessa amministrazione, si è creato uno scudo di quattro
cosiddetti superministri, attirandosi le critiche di alcuni parlamentari e
analisti stranieri per l’accentramento di potere esercitato da questa nuova
struttura amministrativa [Bower e al. 2012, § 12, p. 8].
Soe
Thane, Aung Min, Tin Naing Thein e Hla Tun, i quattro superministri, hanno ora
poteri che, in alcuni casi, prevaricano anche quelli dei due vice presidenti,
ponendo una grossa incognita sul reale sviluppo democratico del nuovo governo.
Accanto ad essi, Thein Sein ha voluto anche il dr. Winston Set Aung, economista
di fama internazionale, per dare al proprio gabinetto un’impronta più
professionale e per persuadere gli investitori della solidità delle riforme.
Con la nomina di Set Aung e quella del nuovo vice presidente, l’ammiraglio Nyan
Tun, considerato un moderato, il rimpasto ha creato una struttura politica più
agile e più affidabile sul piano internazionale, permettendo un’ulteriore accelerazione
delle riforme.
I
militari, contrariamente a quanto ci si poteva aspettare, hanno giocato un
ruolo determinante in questa seconda fase. In un parlamento dove il 25% dei seggi
spetta di diritto alle forze armate, e dove ogni legge deve essere approvata dal
75% dei parlamentari, il ruolo dei generali risulta ancora determinante. Dopo
il ritiro dalla scena politica di Than Shwe e Maung Aye, i due leader militari
che avevano guidato il paese dal 1992 al 2011, la posizione di vertice nelle
forze armate è stata occupata dal riformista Min Aung Hlaing, il quale ha
accettato un graduale ritiro dei militari dalle funzioni civili dello stato. A
nulla sono valse le richieste di un ritorno in campo rivolte a Than Shwe da
parte di alcuni membri dell’ala dura dell’USDP, all’indomani della disfatta
nelle elezioni suppletive [W/FP 12 luglio 2012, «The latest intrigues in Burma»].
La
prova definitiva di un passo indietro della vecchia guardia del Tatmadaw, l’esercito
birmano, è arrivata quando, per la prima volta dal 1962, il budget militare non
solo è stato portato alla Camera Bassa per la discussione, ma è stato anche diminuito
del 14,4% [W/J 1° febbraio 2012, «Defence budget (Myanmar)»].
Con
la riduzione d’influenza dell’USDP, il partito di maggioranza, nelle scelte del
governo, l’ala politica dei militari si è infilata in un tunnel di crisi senza
precedenti. Molti membri, un tempo iscritti al partito per coercizione o per
convenienza, ne hanno abbandonato le file per migrare verso i lidi più sicuri
dell’opposizione, in particolare nell’NLD. I finanziamenti, generosi durante il
regime della giunta, si sono ridotti e, in previsione alle prossime elezioni,
che si terranno tra tre anni, si restringeranno ancora più, visto che, con
tutta probabilità, sarà difficile, per l’USDP, ottenere lo stesso numero di
seggi di cui attualmente dispone. Il partito può ancora contare su una cospicua
rendita proveniente dalle proprietà terriere, commerciali ed industriali, ma
molte di queste, specie negli ultimi due settori, hanno visto i profitti
crollare negli ultimi due anni.
Come
se non bastasse, i singoli finanziatori, uomini d’affari birmani e imprese
legate ai militari, sempre con più frequenza hanno scelto di giocare la futura
carta vincente, sponsorizzando l’NLD. L’obiettivo, in questo caso, è quello di
ottenere un sicuro biglietto da visita per accaparrarsi lucrose joint venture
con le aziende straniere.
4.
Riforme economiche e conflitti sociali
Le
riforme economiche messe in atto dal governo, non hanno ancora dato i risultati
sperati, anche se già si parla del Myanmar come della nuova «tigre» asiatica
[W/TD 31 marzo 2012, «Burma: Asia’s Next Tiger Economy?»].
Sebbene
la crescita media del PIL degli ultimi quattro anni si sia assestata attorno al
5,5% [ADB, 2012, p. 6], la popolazione che vive sotto la linea di povertà (1,25
$ al giorno) è ancora il 25,6% del totale [ADB 2012, p. 2]. L’Indice di
Sviluppo Umano pone il Myanmar al 149° posto, superato anche dal Bangladesh e
dall’Angola, oltre che da tutti i paesi dell’ASEAN, tra cui il Laos [UNDP 2012,
p. 129].
Lo
sviluppo economico prospettato nei prossimi anni per la nazione potrebbe creare
tra la popolazione l’aspettativa di un accrescimento del benessere individuale,
che sovrasta le reali possibilità del governo. Inoltre, gli accordi politici
tra Thein Sein e Aung San Suu Kyi hanno indotto alcuni gruppi dell’opposizione
a sentirsi traditi dalla loro stessa leader, aumentando il disorientamento
verso il nuovo corso.
La
combinazione di queste insoddisfazioni economiche e politiche, a cui, sul lato
diametralmente opposto, si aggiunge una maggiore libertà di espressione, di
coalizione ed un allentamento del controllo sociale da parte del governo, hanno creato un humus adatto alla
proliferazione di movimenti radicali, che reclamano di farsi carico dei diritti
degli strati più emarginati della popolazione. I conflitti sociali aumentano di
pari passo man mano che le riforme avanzano, e questo potrebbe indurre il
governo a rallentare il processo di riorganizzazione dello stato.
La
legge sulle organizzazioni sindacali, entrata in vigore il 9 marzo, ha
rivoluzionato il mondo del lavoro birmano, permettendo la creazione di associazioni
sindacali indipendenti ed il diritto allo sciopero dei dipendenti [W/PO 9 marzo
2012, «Date for labour Organization Law to take effect set»]. La fondazione di
quasi 200 movimenti sindacali, la maggior parte dei quali composti da poche
decine di lavoratori, ha riaperto il dibattito sulla possibilità che l’ingresso
di elementi conservatori, massimalisti o nazionalisti etnici nei partiti, possa
far deragliare il corso politico del governo. Negli anni Trenta, in un periodo
di transizione simile a quello degli ultimi due anni, i nazionalisti birmani avevano
trasformato i sindacati in movimenti di lotta politica, schierati contro il
potere coloniale; oggi la storia si potrebbe ripetere ai danni del governo di
Nay Pyi Taw. Ciò spiega perché le autorità locali abbiano deciso di intervenire
in modo violento e repressivo nei confronti dei manifestanti alle miniere di
Monywa, ciò che ha conferito peso alle critiche di chi ancora non era convinto
della missione riformatrice di Thein Sein.
Il
complesso minerario di Monywa, nella regione centrale di Sagaing, appartiene
alla Union of Myanmar Economic Holding Limited (UMEHL), uno dei due principali
conglomerati di proprietà delle forze armate birmane, e alla cinese Wanbao, una
sussidiaria del gruppo Norinco, nelle mani dei militari cinesi.
I
lavoratori da tempo denunciavano il sistema di sfruttamento inumano adottato
dalla dirigenza, che utilizzava la manodopera privandola dei più elementari
diritti sindacali. Solo alla metà del 2012, però, la protesta si è ampliata a
livello nazionale, per poi divenire un caso internazionale. La ragione per cui
questa vicenda è balzata alla ribalta delle cronache di tutto il mondo è che essa
rappresenta un vero e proprio esame che governo e opposizione devono affrontare
per saggiare la loro abilità nel confrontarsi con le reali esigenze della
popolazione.
Il
motivo del contendere ricalca da vicino quello che era accaduto per la diga di
Myitsone nel settembre 2011 [AM 2011, p. 207]. Al fine di ampliare l’attività
di estrazione del rame e di sviluppare un progetto da un miliardo di dollari,
la Wanbao e la UMEHL hanno chiesto e ottenuto la confisca di 31,5 chilometri
quadrati di territorio circostante e il trasferimento coatto degli abitanti di
26 villaggi.
A
differenza di quanto accaduto a Myitsone, dove lo stesso presidente Thein Sein
aveva annullato il progetto, provocando le reazioni della Cina, a Monywa i
manifestanti sono stati duramente percossi dalle forze di polizia, anche se,
almeno apparentemente, il governo centrale non sembra responsabile dell’azione
violenta. A fianco dei dimostranti sono scesi in campo attivisti dei diritti
umani, monaci buddisti e la dirigenza di Generazione 88. Sembra che il nuovo
arresto di U Gambira, avvenuto il 1° dicembre, sia legato indirettamente alle
dimostrazioni di Monywa, secondo quanto riferito da Daw Ray, madre del
religioso [W/M 9 dicembre 2012, «Campaign calls for candlelight vigils for U
Gambira»].
Lo
stesso giorno del trasferimento di U Gambira nella prigione di Insein, il
presidente formava una commissione d’inchiesta per indagare sull’operato della
polizia [PO 1° dicembre 2012, «Formation of Investigation Commission»]. A capo
del comitato, Thein Sein ha nominato Aung San Suu Kyi; una mossa di fiducia
verso la nuova parlamentare, ma anche un astuto espediente per coinvolgere il
movimento democratico in questioni concrete e spinose.
A
Monywa, Aung San Suu Kyi è stata costretta a confrontarsi sul campo con le
necessità della politica e della ragion di stato. Invece di appoggiare senza
condizioni il movimento di protesta, come avrebbe fatto durante gli arresti
domiciliari, ne ha difeso le ragioni, aggiungendo, però, che occorre
raggiungere un compromesso per onorare gli impegni precedentemente presi dal
governo con la controparte cinese [W/HP 1° dicembre 2012, «Myanmar’s Suu Kyi
shows pragmatism»]. La presa di posizione di Suu Kyi non è piaciuta agli
esponenti di punta delle associazioni in difesa dei diritti degli abitanti
della regione, che hanno immediatamente contestato la leader democratica. È quindi
alquanto singolare che, appena due giorni dopo le polemiche suscitate dalle
parole di Aung San Suu Kyi, la composizione della commissione d’inchiesta sia
stata riveduta e 14 dei suoi 30 componenti siano stati costretti alle
dimissioni. Tra i membri rimossi figurano U Khin Maung Swe, del National
Democratic Force (NDF), il partito che nel 2010 si è staccato dall’NLD per
partecipare alle elezioni generali; U Myo Nyunt, segretario generale del Democracy
and Peace Party (DPP); lo scrittore Maung Wuntha; e, infine, i leader del
gruppo Generazione 88, Ko Ko Gyi e Min Ko Naing [PO 3 dicembre 2012, «Reconstitution
of Investigation Commission»]. Le continue illazioni sul coinvolgimento della
stessa presidente della commissione nella destituzione di alcuni di questi
membri hanno indotto Ko Ko Gyi a rilasciare una dichiarazione in cui confermava
la piena fiducia ad Aung San Suu Kyi [W/MMM 4 dicembre 2012, «Ko Ko Gyi Says
We’ll Mediate in the Letpadaungtaung Disputes»].
La
vicenda di Monywa, a prescindere da ogni altra considerazione, è importante per
capire come il Myanmar stia cercando di percorrere la cosiddetta «road map
to democracy», imboccando vie ancora poco esplorate nell’area geopolitica
asiatica.
Mentre,
infatti, paesi come Cina e Vietnam hanno sviluppato la propria economia senza
sostanzialmente mutare l’assetto politico del paese, altri, come l’Indonesia,
hanno preferito procedere in senso inverso, anticipando le riforme politiche rispetto
a quelle economiche. Il Myanmar sta portando avanti contemporaneamente entrambe
queste metamorfosi, divenendo un laboratorio unico nel suo genere, non solo in
Asia.
La
liberalizzazione dei sindacati, l’abolizione della censura, la libertà di
espressione e di sciopero fanno parte non solo di un piano di sviluppo politico,
ma anche economico e sociale, che è stato ideato con l’occhio rivolto più
all’esterno che all’interno del paese.
La
fine delle sanzioni internazionali, assieme al tentativo di attrarre gli
investimenti stranieri, sono i principali obiettivi che il governo si è posto nel
continuare a sospingere il treno delle riforme. Il maggiore ostacolo, però,
sembra essere proprio questo: riuscire ad evitare un disastroso deragliamento
dovuto non tanto al ritorno dei conservatori (cosa, del resto, poco probabile),
ma all’incontrollata velocità nel mutamento socio-economico, provocata dal
caotico susseguirsi dei decreti di liberalizzazioni.
Non
sembra che Thein Sein in questo processo abbia seguito una linea programmatica
ben precisa; sembra, invece, che abbia cercato di assecondare tutte le
richieste che sono pervenute dai governi occidentali e dagli Stati Uniti al
solo fine di indurli a cancellare le ultime sanzioni rimaste, con l’obiettivo
dia portare investimenti e valuta pregiata entro i confini nazionali.
Una
delle prime mosse volute dal gabinetto birmano per conquistare la fiducia dei
mercati mondiali è stato il deprezzamento del kyat, imposto dall’FMI a
partire dall’aprile 2012. Questa inaugurazione di interventi diretti
sull’economia birmana da parte di istituzioni straniere, oltre a sopprimere il
mercato nero, ha creato i presupposti per smantellare i monopoli dei grandi
conglomerati statali [IMF 2012]. Con un cambio di 820 kyat per dollaro
(contro il precedente cambio ufficiale a 5,35), le imprese dello stato non
potranno più calcolare le importazioni con un tasso simulato e bugiardo che le
avvantaggiava rispetto alle aziende private. Queste, infatti, per procurarsi
valuta pregiata e acquistare merci all’estero, erano prima obbligate a comprare
prodotti locali (per lo più da società statali) ed esportarli.
Fino
a pochi anni fa, i tre centri di potere economico del paese erano i militari,
il partito che li rappresentava (l’USDP) e gli uomini d’affari vicini ad essi;
in tutto una ventina di famiglie controllava il sistema economico di un’intera
nazione di 60 milioni di abitanti. La ristrutturazione di Thein Sein ha
progressivamente eroso il potere di questa triade, ma nessuno dei tre soggetti è
sembrato in grado di porre seri ostacoli ai piani del governo. La triade,
infatti, ha preferito defilarsi in due modi: nel primo caso, pur dovendo
rinunciare ad ulteriori facili arricchimenti, ha pur tuttavia mantenuto intatte
le ricchezze accumulate; nel secondo caso ha offerto le proprie risorse ad Aung
San Suu Kyi ed al suo partito.
I
due gruppi economici principali del Myanmar, la Union of Myanmar Economic
Holding Limited (UMEHL) e la Myanmar Economic Coprporation (MEC), entrambe di
proprietà dei militari, si sono così trovate a fronteggiare una nuova realtà.
Obbligati a pagare le tasse (in precedenza ne erano esentati), a confrontarsi
alla pari con altri concorrenti, privi di personale competente, i due colossi
si sono ritrovati con le gambe d’argilla. La cancellazione dello sviluppo della
miniera di rame di Monywa obbligherebbe la UMEHL e lo stato birmano a pagare
penali esorbitanti, rischiando di mandare in fallimento l’intero conglomerato,
con il conseguente licenziamento di migliaia di lavoratori. Questo potrebbe poi
comportare una pericolosissima reazione da parte dei generali e del loro
entourage, che dalla società imprenditoriale hanno ricavato milioni di dollari
e che, ovviamente, desidererebbero continuare a ricavarne altrettanti.
La
revoca dei monopoli, iniziata il 30 marzo 2011, ha già privato i militari di
ingenti entrate, e nessuno, neppure l’opposizione parlamentare, ha voluto
rischiare di vedere insorgere i generali, infierendo ulteriormente sui loro
privilegi, specialmente in vista del fatto che i prossimi tre anni, fitti di
importanti appuntamenti internazionali, saranno in ogni caso difficili.
Nel
2013, difatti, il Myanmar ospiterà i Giochi del Sud-est asiatico, mentre nel 2014 presiederà l’ASEAN, preparandosi per
l’entrata in vigore della Comunità Economica dell’ASEAN, prevista per il 2015.
La
decisione di evitare di infierire pesantemente sui due colossi del Tatmadaw,
almeno sino a quando il nuovo assetto della nazione si sarà stabilizzato, ha
reso necessario trovare altri campi di intervento economico,che rendano più
efficiente il sistema. Questo, naturalmente, non significa che le imprese
parassite, di proprietà delle forze armate, non potranno subire drastici
ridimensionamenti; ma questi dovranno tenere conto di diversi fattori di
stabilità interna, tra cui la necessità di cooperazione dell’esercito nel controllo
delle aspirazioni secessioniste delle varie etnie.
Più
volte Thein Sein ha insistito sulla necessità di investimenti internazionali
nel campo delle telecomunicazioni, dell’energia e dei trasporti. Tuttavia, la
mancanza di tecnici competenti e di professionalità in un contesto in cui sono ancora
presenti intatti i gangli burocratici, figli della corruzione, tiene ancora
lontano i capitali esteri.
Dopo
l’incertezza causata dalle elezioni del 2010, quando gli investimenti stranieri
erano scesi a 450 milioni di dollari, la maggior incisività delle riforme ha
riportato l’afflusso di capitali ai livelli del 2009, raggiungendo, nel 2011,
gli 850 milioni di dollari [UNCTAD 2012, §7.1.2, p. 348]. I settori in cui si è
riscontrato maggior interesse sono quelli energetici (46,01% degli investimenti
stranieri totali) e dell’estrazione petrolifera e del gas naturale (34,22%),
seguiti a distanza dal settore minerario (6,79%), dal manifatturiero (4,52%) e
dall’industria turistica (3,29%) [W/DICA 31 (sic) novembre 2012, «Foreign
Investment of permitted enterprises as of 31(sic)/11/2012 by sector»].
Per
attrarre risorse finanziarie dall’estero, Thein Sein stesso ha voluto una
revisione più liberale della legge per gli investimenti stranieri, che, oltre
ad eliminare il limite del 49% di compartecipazione di una ditta estera nelle
joint venture porta a cinque anni il periodo di esenzione erariale. D’altra
parte, la stessa legge obbliga le compagnie, dopo i primi cinque anni di
presenza sul territorio, ad assumere il 25% del proprio personale specializzato
tra i cittadini del Myanmar, per poi elevare tale quota sino a raggiungere il
75% dopo 15 anni [UoM 2 novembre 2012, «The Foreign Investment Law»].
La
nuova normativa dovrebbe servire anche a diversificare la provenienza dei
capitali. Attualmente, infatti, la metà degli investimenti è cinese (49,52% tra
Repubblica Popolare e Hong Kong), il 23,09% tailandese e il 7,17% sud-coreano
[W/DICA 31 (sic) novembre 2012, «Foreign Investment of permitted enterprises as
of 31(sic)/11/2012 by country»].
La
Cina, oltre ai progetti idroelettrici già in corso, ha iniziato a costruire un
oleodotto e un gasdotto che porterà idrocarburi dal porto di Kyaukpyu,
sull’Oceano Indiano, a Kunming. Sempre la Cina sta costruendo una ferrovia ad
alta velocità che, quando sarà terminata, permetterà il collegamento diretto
tra Pechino e Yangon. La Thailandia ha, invece, iniziato a sfruttare i
giacimenti off-shore di Dawei con un megaimpianto multifunzionale che, con un
costo di 8 miliardi di dollari, prevede la realizzazione di un centro petrolchimico,
di un porto per petroliere, di una strada e, infine, di una ferrovia che
collegherà l’Oceano Indiano con la costa vietnamita del Mar Cinese Meridionale.
Il complesso, a cui si aggiungeranno quartieri residenziali, occuperà un’area
di 100 chilometri quadrati con il rischio di sconvolgere l’intero ecosistema
ambientale e culturale della zona [W/DDC].
5.
La voglia di Occidente, la voglia di Myanmar
L’Europa
e gli Stati Uniti non vogliono stare a guardare: mentre altri stati stanno
saccheggiando le immense ricchezze naturali del Myanmar; le imprese
occidentali, già dilaniate dalla crisi, scalpitano per accaparrarsi la loro
parte di bottino.
Nell’aprile
2012, la Comunità Europea ha annunciato la sospensione delle sanzioni in vigore
contro Nay Pyi Taw [W/EU 23 aprile 2012]. Cinque giorni dopo, il 28 aprile,
Catherine Ashton, ministro degli Esteri della Comunità Europea, ha inaugurato
l’ufficio di rappresentanza europeo a Yangon alla presenza di Aung San Suu Kyi
e di U Myint Swe [W/EU s.d.].
Da
parte loro gli Stati Uniti sono stati più cauti, ciò che li ha portati ad
adottare una politica contraddittoria. Infatti, il 18 luglio, appena sei giorni
dopo aver autorizzato gli investimenti di imprese statunitensi in Myanmar, il
Comitato Finanziario del senato degli USA ha chiesto una proroga di tre anni al
bando sull’importazione dei prodotti birmani, in scadenza nel 2012 [W/USDT 11
luglio 2012, «Burmese Sanctions Regulations – Authorizing New Investments in
Burma»; W/USSCF 18 luglio 2012, «Description of the Chairman’s Mark to (…)
approve the renewal of import restrictions contained in the Burmese Freedom and
Democracy Act of 2003», § C, p. 4].
Il
viaggio di Aung San Suu Kyi e di Thein Sein alle Nazioni Unite ed i successivi
colloqui con Hillary Clinton, durante i quali la stessa leader dell’opposizione
birmana ha chiesto la rimozione dell’embargo, hanno convinto l’amministrazione
statunitense a togliere anche le ultime restrizioni, a partire dalla fine del
novembre 2012 [W/USDT 16 novembre 2012, «Burmese Sanctions Regulations –
Authorizing the Importation of Products of Burma»].
Con
questi accordi, diverse multinazionali hanno già iniziato ad espandersi nel
mercato birmano, o hanno pensato di farlo nel prossimo futuro: Coca Cola,
Pepsi, General Motors, Omnicom, Caterpillar, Chevron, General Electric, BP,
Shell, Rolls Royce sono solo alcune delle compagnie che hanno già adocchiato l’
«affare Myanmar» e che hanno inviato delegazioni nel paese per sondare la
possibilità di concludere intese commerciali.
La
visita del presidente Obama (19 novembre 2012) è stata il definitivo
riconoscimento degli sforzi compiuti dal nuovo governo asiatico verso una
completa democratizzazione del paese.
Nel frattempo, mentre si profila la massiccia
penetrazione del capitale internazionale, con tutte le conseguenze negative che
un ingresso incontrollato potrebbe avere a livello sociale, il Myanmar ha iniziato
a subire un altro tipo di irruzione; meno aggressiva, se vogliamo, ma potenzialmente
altrettanto devastante: il turismo di massa, che mette in serio pericolo il
delicato equilibrio culturale e naturale della nazione.
Secondo
i dati del Ministero del Turismo, nel 2011 sarebbero entrati nel paese più di
816.000 turisti, il 26% dei quali in tour organizzati [W/MHT s.d, «Myanmar
Tourism Statistic 2011»]. Nel 2012 si prevede un aumento del 30%. Le campagne
pubblicitarie in atto per invogliare i turisti a visitare il Myanmar sono
alquanto ambigue; da concorsi di bellezza organizzati appositamente per
viaggiatori, all’entrata in rete di siti web che accennano a possibili
sfruttamenti sessuali.
Le
grandi catene alberghiere internazionali hanno già avanzato proposte per la
costruzione di megavillaggi sulle spiagge di Ngapali, sulle rive del lago Inle
o nei pressi del complesso archeologico di Bagan.
Proprio
a Bagan, dove nel 2012 la presenza dei visitatori è cresciuta del 50%, si
concentrano le maggiori preoccupazioni di chi vede l’aumento del turismo come
una minaccia per l’integrità dei monumenti [W/MHT 26 novembre 2012, «Union
Minister for Hotel and Tourism meets hoteliers and tour operators from Bagan
and Mandalay region, attends opening ceremony of Hotel service course»]. Vale anche
la pena ricordare che, nei luoghi più prestigiosi, sia dal punto di vista
naturalistico, come il lago Inle, sia dal punto di vista culturale, come la
città di Pagan, le strutture alberghiere costruite negli ultimi anni hanno già
provocato dei danni paesaggistici incalcolabili.
La
nazione, inoltre, non è ancora dotata di infrastrutture tali da assorbire una
quantità di visitatori particolarmente esigenti; ne consegue che, come si è già
anticipato, l’arrivo del turismo di massa potrebbe sconvolgere la vita, le
tradizioni e la stessa stabilità sociale di un paese che già ha enormi problemi
di disuguaglianze e di sopravvivenza.
6.
Le nuove politiche di pace nella questione etnica
Il
problema del turismo non si pone nelle zone di confine, dove vivono numerose
minoranze etniche. Molte di queste aree sono precluse agli stranieri, altre
hanno un accesso limitato.
Dopo
il rilascio di centinaia di prigionieri politici (l’ultima amnistia è del 19
novembre 2012), rimangono incarcerati, a causa delle loro idee, 216 persone
[W/AAPP 20 novembre 2012, «List of Political Prisoners whose whereabout are
verified»].
I
numerosi condoni, di cui hanno beneficiato anche personalità internazionalmente
note, come il già citato Ko Ko Gyi e il comico Zarganar, e la rimozione,
avvenuta il 27 agosto, di circa 2.000 nomi di stranieri iscritti nella lista
nera hanno indotto i governi democratici ad allentare l’attenzione verso il problema
delle aspirazioni nazionali delle minoranze etniche. Un problema che, vogliamo
ribadirlo, non è stato creato dai militari, visto che esisteva già prima della costruzione
dell’idea di nazione birmana da parte degli inglesi nel XIX secolo, ma che i
generali hanno sicuramente amplificato con una gestione miope e poco
disponibile al dialogo.
Nel
discorso tenuto in occasione del primo anniversario della formazione del suo
governo, Thein Sein ha posto come uno degli obiettivi principali del gabinetto
il ritorno alle trattative di pace con i gruppi etnici in lotta. In
particolare, il presidente ha voluto ricordare la conferenza di Panglong del
1947, riprendendo non a caso ciò che già Aung San Suu Kyi, pochi giorni dopo la
sua liberazione, aveva auspicato [W/PO 1° marzo 2012, «Address delivered by
President of the Republic of the Union of Myanmar U Thein Sein’s at today’s
third regular session of first Pyidaungsu Hluttaw»]. Nella conferenza di
Panglong, le nazioni Shan, Chin e Kachin accettarono di entrare nell’unione
birmana in cambio della promessa (mai mantenuta) di una futura eventuale
autonomia.
Sul
fronte etnico, il 2012 è stato un anno particolarmente agitato: da una parte si
sono visti concludere accordi di cessate il fuoco con 11 gruppi armati,
dall’altra aree che, fino al 2012, erano state relativamente calme, come la
regione Rakhine, sono state sconvolte dalla furia nazionalista.
Tra
i trattati di pace firmati da Thein Sein, quelli conclusi il 27 febbraio con il
New Mon State Party (NMSP), il partito di rappresentanza dei gruppi mon,
e, il 7 aprile, con il Karen National Union (KNU), quello che
rappresenta i karen, sono stati particolarmente importanti [W/DVB, 27 febbraio
2012, «Mon army agrees truce with govt»; W/KNU, 7 aprile 2012, «The KNU Press
Release on 1st Meeting between KNU Delegation and Union – Level Peace
Delegation»]. Dopo questi armistizi, infatti, l’intera regione del confine
orientale con la Thailandia è stata posta in uno stato di tregua armata, così da
permettere la realizzazione del progetto tailandese di Dawei.
I
termini del cessate il fuoco, pur differenziandosi da gruppo a gruppo, a
seconda della forza politica e militare espressa e del periodo in cui sono
stati siglati i trattati, hanno tutti alcuni punti in comune. Fra questi vi è
il fatto di non essere mai stati ratificati in forma scritta, trovando
espressione solo e sempre in forma verbale, e di non contemplare forme di
autonomia, se non in misura molto restrittiva, e, comunque, sempre con formulazioni
ambigue, che lasciano ampio spazio ad interpretazioni diverse. Si tratta di un
modo di procedere che, ovviamente, non può che rendere gli accordi in questione
provvisori e instabili.
L’intervento
di imprenditori come mediatori nei conflitti etnici è sempre stato determinante
per la loro risoluzione o per la rottura delle trattative. Tutti gli accordi di
pace, infatti, pur partendo da linee di principio ideologiche e culturali, si
trasformano ben presto in veri trattati economici che determinano con
precisione la divisione delle ricchezze. Quando il bilanciamento di questa
spartizione è ritenuto soddisfacente da entrambe le parti, gli accordi vengono
firmati e le armi messe a tacere.
Gli
accordi firmati da Thein Sein con i gruppi etnici non fanno eccezione.
Il
gruppo dei kachin – rappresentato dalla potente Kachin Independence
Organization (KIO) e dal suo gruppo armato, la Kachin Independence Army
(KIA) – è l’unico che ancora non ha siglato alcun accordo con il governo di Nay
Pyi Taw,. I combattimenti nello stato settentrionale del Myanmar sono continuati
nel corso del 2012, provocando instabilità nell’intera regione e la sua immobilità
economica. A nulla, sono valsi i numerosi incontri bilaterali tra le diverse
parti in lotta, alcuni dei quali organizzati da Yup Zaw Hkawng, un potente uomo
d’affari kachin e padrone della Jadeland Company, una compagnia che commercia
in pietre preziose.
Il
conflitto, che aveva posto fine ad un lungo armistizio durato 17 anni, era iniziato
nel 2010, anche a causa di un «colpo di stato» all’interno del KIO, quando
alcuni battaglioni si erano ribellati alla dirigenza, reputata troppo morbida
nei confronti del governo centrale. Appoggiati da gran parte della popolazione,
i leader più intransigenti hanno colto l’occasione delle riforme di Thein Sein per
iniziare il conflitto noto come «guerra del Kokang» e contrastare il progetto
della diga di Myitsone [AM 2010, pp. 190-191].
L’annullamento
della commessa per la costruzione dell’imponente complesso idroelettrico da 3,6
miliardi di dollari avrebbe privato il KIO di circa 2 milioni di dollari, somma
ricevuta dalla Cina come compenso per il consenso e la protezione militare dati
dalla dirigenza kachin alle ditte coinvolte. Sebbene recentemente il generale
della KIA, Gun Maw, abbia negato ogni coinvolgimento del gruppo secessionista
nell’affare, le prove sembrano schiaccianti [W/IW 30 marzo 2012, «Lies, Dam
Lies»].
Altrettanto
problematica è la situazione nello stato Rakhine, dove 808.000 musulmani
Rohingya, su una popolazione totale di 3 milioni di abitanti, nel 2012 hanno
iniziato una rivolta.
Non
riconosciuti dal governo del Myanmar, che li definisce bengalesi, e neppure dal
governo del Bangladesh, che li chiama Rohingya, questo gruppo islamico vive
nella nazione birmana da generazioni. La legge di cittadinanza, approvata nel
1982, afferma che i figli di genitori che erano in Birmania prima del 1948
possono chiedere la cittadinanza; nonostante, però, che il 70% dei Rohingya
abbia i requisiti necessari per chiedere il certificato, questo viene quasi
sempre negato. Con i cambiamenti in atto in Myanmar, ora i buddisti Rakhine
temono che anche ai musulmani venga concessa la cittadinanza e che, presto,
possano sopravanzarli in numero e amministrare la regione.
È
in questo quadro già infuocato che, il 28 maggio 2012, sono iniziati gli
scontri tra Rakhine buddisti e Rohingya musulmani.
Il
tutto è nato dallo stupro, da parte di tre musulmani di etnia Rohingya, di una
donna di religione buddista che ha inasprito le tensioni tra le due etnie. Il 3
giugno, un gruppo di buddisti inferociti, ha assalito un bus di pellegrini
islamici, uccidendo dieci passeggeri.
Da
queste due circostanze è scaturita una cascata di vendette e di violenze che
hanno portato alla morte centinaia di persone e alla fuga dai propri villaggi di
75.000 persone, la maggior parte delle quali Rohingya.
Il
governo, dopo aver decretato lo stato di emergenza, è stato incapace di far
fronte al dilagare delle brutalità, in gran parte commesse dalla comunità
buddista i danni di quella islamica [W/RFA 10 giugno 2012, «Emergency Declared
in Rakhine»].
Le
ostilità, in questa parte del paese a ridosso del Bangladesh, assumono un significato
più sinistro rispetto ai conflitti in atto nelle regioni settentrionali e
orientali, perché qui, sulla divisione etnica si innesta il fervore religioso,
che travalica i confini nazionali. Alle condanne di paesi quali Malaysia,
Pakistan, Arabia Saudita, Indonesia, Iran, Egitto, infatti, si aggiungono le
prese di posizione di movimenti e di attivisti islamici. Il 22 luglio, Abu
Bakar Ba’syir, leader spirituale del movimento musulmano indonesiano Indonesian Mujahedeen Council, ha scritto
una dura missiva al presidente Thein Sein, minacciando di lanciare un jihad
se le violenze contro i musulmani non si fossero fermate; quattro giorni dopo, Ehsanullah
Ehsan, portavoce del gruppo pakistano Tehreek-e-Taliban, ha chiesto a Islamabad
di interrompere ogni rapporto diplomatico con Nay Pyi Taw [W/A 2 agosto 2012, «Ustadz Abu Bakar
Ba’sdyir letter to the President of Myanmar»; W/ET 26 luglio 2012, «Tehreek-e-Taliban
Pakistan threaten Myanmar over Rohingya»].
Per
fare chiarezza sui fatti accaduti, il 17 agosto Thein Sein ha formato una
commissione d’inchiesta comprendente 27 membri di varie religioni e leader
della dissidenza come Ko Ko Gyi e Zarganar
[W/PO 17 agosto 2012, «Investigation Commission formed Notification No.
58/2012»]. La mancanza di rappresentanti Rohingya nella commissione si è, però,
rivelata fatale; è stato lo stesso Zarganar a rendere noto che il lavoro della
commissione si era rivelato più difficile del previsto, vista la reticenza di
alcuni testimoni, per la maggioranza musulmani [W/M 18 ottobre 2012, «Burmese
investigative commission ‘blocked’ locally: Zarganar»].
Nelle
paludose questioni etniche, si è impantanata anche Aung San Suu Kyi che, per la
prima volta dalla sua liberazione, è stata fortemente criticata per la sua
reticenza nel condannare le violenze dello stato nella regione Kachin e della
comunità buddista nel Rakhine [W/KN 25 giugno 2012, «The root, the cause of the
Kachin situation»].
Le
sue dichiarazioni sulla sua impossibilità di intervenire direttamente a favore
dei Rohingya, perché questi non fanno parte del parlamento, non fanno altro che
alimentare i giudizi negativi sul suo operato nei confronti delle minoranze
etniche [W/DVB 24 settembre 2012, «Is it foolish to criticise Aung San Su Kyi?»].
Sembra davvero che, in questo ambito politico, Su Kyi abbia ereditato da suo
padre, Aung San, la fobia verso qualsiasi tentativo da parte delle minoranze etniche
di rivendicare i propri diritti nei confronti dalla maggioranza bamar del
paese.
La
stessa Lady, che mesi prima aveva criticato l’intervento dell’esercito per
sedare le rivolte etniche, ha invocato l’invio di truppe del Tatmadaw nel
Rakhine [W/RA 9 novembre 2012, «Suu Kyi calls for more troops to end Burma
unrest»].
Forse
Aung San Suu Kyi e il movimento che ad ella si ispira si stanno ora rendendo
conto che la fase di democratizzazione, voluta senza verificare se le
condizioni del paese la permettevano, sta liberando ciò che il governo dei
militari era sempre riuscito a ingabbiare con la violenza e la paura: il
nazionalismo xenofobo. La conseguenza è stato l’inasprimento delle tensioni
sociali in tutto il paese.
Ma
anche questo fa parte della democrazia.
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