Ci sono
voluti 21 anni, ma alla fine Aung San Suu Kyi ha potuto ritirare personalmente
il premio Nobel per la pace assegnatole nel 1991 e mai consegnatole per la
proibizione dei militari di rientrare in Myanmar, una volta abbandonato il
paese.
L’abbiamo
incontrata durante uno dei rari momenti di relax che la sua fitta agenda le
consent
-Ventiquattro
anni di assenza sono tanti. Come si è preparata ad incontrare l’Europa dopo
aver vissuto per lungo tempi in Inghilterra?-
ASSK: -Durante il viaggio
in aereo ero eccitatissima. Guardavo dal finestrino passare sotto di me, ad
appena sette-otto chilometri, terre e paesi dalle culture, lingue, religioni
diverse. Erano paesi senza frontiere, dall’aereo non le puoi vedere, e mi
dicevo che se io ora sono libera di viaggiare da un Paese all’altro, altre
persone non lo sono per diversi motivi. Dobbiamo lottare anche per loro. Ora
sono in Europa, un continente che conosco bene perché ci sono vissuta per tanti
anni. Per ora ho visitato solo la Svizzera e la Norvegia, poi andrò in
Inghilterra, mia seconda patria. Non so cosa troverò. Amici che non vedevo da
anni, città che forse sono cambiate, stili di vita. Sono davvero curiosa e
elettrizzata!-
-Cosa ha provato quando ha stretto in mano il
premio?
ASSK
–Emozione, naturalmente, ma anche un senso di liberazione e di felicità. Liberazione
perché il mio arrivo ad Oslo dopo 23 anni di restrizioni di movimento, è un
segno che le cose in Birmania stanno cambiando. Felicità perché, oltre a
conoscere direttamente persone che si sono sempre battute attivamente per la
democratizzazione della Birmania, potrò finalmente portare il premio al mio
popolo che ha sofferto e continua a soffrire per i 50 anni di dittatura
militare.-
-Lei è ancora scettica sulla reale
democratizzazione in atto in Myanmar, o Birmania come preferisce chiamarla.
Eppure dal 2010 ad oggi ci sono stati chiari segni di buona volontà da parte
del governo di Thein Sein-
ASSK –Thein Sein è una persona credibile
e aperta alle riforme, ma all’interno del Tatmadaw esistono ancora elementi
contrari alla democratizzazione. E’ per questo che ricordo sempre che non
bisogna abbassare la guardia.-
-Lei si è sempre dichiarata favorevole
all’embargo economico verso la Birmania dei generali. Ora sta cambiando
opinione, chiedendo ai turisti di visitare il paese e alle compagnie
internazionali di investire nella nazione. Come mai se, come lei stessa ha
appena detto, esiste il pericolo di una controriforma democratica che potrebbe
riportare la Birmania alla dittatura militare?-
ASSK: -E’
vero, esiste sempre questo pericolo, ma occorre anche dare una chance al
processo di riforma e a chi questo processo lo sostiene. Penso che l’apertura
del paese all’esterno, con l’arrivo di stranieri e di investitori dai paesi
democratici, possa cementificare le fondamenta dello stato democratico che
stiamo costruendo.-
-Le
economie mondiali, USA e Europa in testa, cercheranno in tutti i modi di
recuperare il terreno perduto negli investimenti in Birmania a causa del
boicottaggio. Non pensa che una rincorsa al profitto possa portare allo
sfruttamento incontrollato dei lavoratori e a rendere la Birmania un campo di
battaglia tra USA, Cina e India?-
ASSK: -Già oggi c’è uno
sfruttamento dei lavoratori. Solo da poco tempo i sindacati in Birmania sono
liberalizzati ed in alcune fabbriche i lavoratori si stanno organizzando per
chiedere maggiori diritti. Certamente l’aumento degli investimenti nel paese
potrà portare allo sviluppo di una sorta di capitalismo selvaggio, ed è per
questo che dobbiamo controllare attentamente ogni richiesta. Inoltre è anche
vero che Cina, India e Stati Uniti potrebbero scontrarsi in Birmania come è successo
altrove. Solo un governo veramente democratico e rappresentativo potrà evitare
che questo accada. E’ anche per questo che sono venuta in Europa. Per chiedere
aiuto a voi affinché il nostro Paese non venga immolato sull’altare del
profitto.-
-Lei è entrata nel parlamento pur essendo
contraria alla Costituzione del paese. Non è un controsenso?-
ASSK:
-Continuiamo a non accettare la Costituzione e ci battiamo affinché possa
essere cambiata in modo democratico. Non accettiamo, ad esempio, che il 25% dei
seggi debba essere assegnato ai militari perché questo blocca ogni emendamento
che non sia accettato da loro.-
-La parte più delicata della democratizzazione
birmana è quella che interessa le minoranze etniche. Nessuno, nemmeno suo
padre, è mai riuscito a porre fine ai conflitti periferici della nazione. Come
pensa di riuscirci lei?-
ASSK: -Il
segreto sta nell’ascoltare le richieste di queste componenti etniche che fanno
parte integrante dello stato birmano. I generali della giunta birmana sino ad
oggi hanno pensato solo a sfruttare le risorse economiche degli stati etnici
per il loro tornaconto personale. Occorre cambiare prospettiva e permettere che
siano le rappresentanze etniche stesse a gestire le loro risorse per il bene di
tutta la nazione.-
-In
alcuni stati della Birmania si cominciano a riscontrare i primi scontri a
sfondo etnico e religioso, come quelli in atto nell’Arakan tra buddisti e
musulmani. Forse avevano ragione coloro che avvisavano del pericolo di una
democratizzazione troppo repentina?
ASSK: -Gli scontri
nell’Arakan sono dovuti alla politica delle passate giunte militari che hanno
negato alle popolazioni locali una giusta autodeterminazione. Gli scontri
c’erano anche prima, non sono nati dopo l’avvio del processo democratico.
Musulmani e buddisti hanno vissuto pacificamente assieme per secoli in quella
regione; è stata la politica della giunta militare a rompere quell’equilibrio
naturale che si era raggiunto. Ora dobbiamo ristabilirlo ma, come dimostrano i
recenti avvenimenti, non è facile.
Copyright ©Piergiorgio Pescali
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