Le elezioni Myanmar hanno decretato la vittoria della Lega
Nazionale per la Democrazia (LND), il partito fondato dal generale Tin Oo
assieme ad Aung San Suu Kyi. Eppure, a leggere e a sentire i commenti degli
organi di stampa internazionali, quasi nessuno applaude all’LND; tutti
attribuiscono il successo elettorale alla sola Aung San Suu Kyi, la quale,
seppur membro di spicco del partito, è pur sempre UNA delle tante figure del
movimento.
Aung San Suu Kyi (photo Suzanne Plunkett / PA)
Attribuire la vittoria politica di un intero partito,
formato da milioni di membri ed elettori, ad una sola persona è una pericolosa
deriva verso un culto della personalità di cui Suu Kyi sicuramente trarrà
vantaggio per la sua futura carriera politica. Non per nulla la Lady, come
ancora oggi viene chiamata, non ha mai voluto diluire la propria notorietà,
specie all’estero, al fine di favorire la collettività politica del suo
partito.
Nonostante che fossero in molti allora a dubitarne, dal
2010 il Myanmar sta faticosamente, e con successo, cercando di uscire da una
dittatura militare feroce ed oppressiva, ma rischia di scivolare verso una
seconda “dittatura democratica”. Aung San Suu Kyi ha oramai perso gran parte di
quell’immagine di eroina e difensore dei diritti umani di cui si era circondata
durante il suo ventennale periodo di arresti domiciliari (1990-2010). Si è
rifiutata, e continua a rifiutarsi, di riconoscere il dramma dei Rohingya, ha
appoggiato, “per onore di patria” come ha lei stessa spiegato, la decisione del
governo di allontanare a forza migliaia di contadini nelle regioni minerarie in
concessione a compagnie cinesi, ha pubblicamente elogiato il tatmadaw (le forze armate birmane) per
le loro azioni militari nel Kachin e, ultimamente, ha sibillinamente annunciato
che, se non potrà essere eletta presidente del Myanmar, coprirà una posizione
superiore a quella presidenziale, non specificando, però, a quale figura si
riferisse, visto che la costituzione non prevede una carica simile.
Gli organi di stampa di tutto il mondo hanno sempre
sottolineato l’ingiustizia di una costituzione che impedisce alla Lady di
candidarsi alla presidenza perché i suoi figli hanno passaporto britannico; non
hanno mai, però, precisato che l’articolo in questione non è stato introdotto
dalla giunta militare, ma era già presente nella vecchia costituzione
democratica del 1947, a cui spesso la stessa Suu Kyi fa appello per un ritorno
alla democrazia nel Paese.
Nessuno, inoltre, ha mai spiegato (o voluto spiegare) che
il tatmadaw è l’unica forza
interetnica presente in Myanmar e, come tale, rappresenta ancora l’unico
elemento di unione di un Paese altrimenti diviso in 135 nazionalità differenti
e condannato al dissolvimento. Le diplomazie asiatiche e, in molti casi, anche
quelle occidentali, se da una parte hanno sempre condannato la giunta militare,
dall’altra l’hanno aiutata a restare al potere rafforzando le forze armate, al
fine di non creare un nuovo Vietnam. Il crollo del Myanmar, infatti, darebbe
vigore a spinte secessioniste che metterebbero a repentaglio l’esistenza della
Thailandia, del Laos, del Vietnam, senza contare che le minoranze dello Yunnan
cinese, a cui molti gruppi etnici dislocati nel Myanmar sono legati, non
perderebbero l’occasione per far valere le loro richieste verso Pechino.
L’intero Sud Est Asiatico si destabilizzerebbe con conseguenze devastanti non
solo in Asia, ma su tutto il pianeta.
Aung San Suu Kyi, figlia, non dimentichiamolo, del generale
Aung San, fondatore del tatmadaw ed
egli stesso colpevole di crimini efferati nei confronti di diverse minoranze
etniche, è ben consapevole del ruolo indispensabile dei militari per il futuro
della nazione e per questo non ne ha mai chiesto il ritiro completo dalla vita
politica (del resto il fondatore del partito di cui è presidente è un
generale).
Lo stesso problema etnico, mai risolto in modo definitivo
da nessun governo succedutosi dopo l’indipendenza, è un retaggio storico del
colonialismo britannico. Durante la Seconda Guerra Mondiale, quando l’eroe
nazionale Aung San combatteva a fianco dell’esercito imperiale giapponese ed
era Ministro della Guerra del governo fantoccio birmano, la maggioranza delle
etnie si era schierata a fianco dei britannici. Un’onta mai perdonata da Aung
San, che non ha mai voluto concedere ai gruppi etnici alcuna forma di
autonomia, dando così inizio, ben prima dell’avvento dei militari al potere,
alle guerre civili che ancora oggi devastano i territori di confine.
Inoltre l’India, in competizione con la Cina per lo
sfruttamento delle risorse naturali del Myanmar e per i lucrosi appalti delle
infrastrutture di cui il Paese ha estremo bisogno, ha sempre cercato di
convincere il governo di Yangon (la vecchia capitale) e Nay Pyi Taw (la nuova
capitale) a rafforzare il controllo alle frontiere occidentali per evitare che
gli indipendentisti assamiti trovassero rifugio in territorio birmano.
Infine c’è il problema dei rohingya, 800.000 persone di
fede musulmana, formalmente apolidi, il cui status di cittadinanza non è
riconosciuto né dal Myanmar né dal Bangladesh. Aung San Suu Kyi ha
essenzialmente abbracciato la linea politica del governo, dichiarando che i
rohingya non sono cittadini birmani, ma immigrati illegali. I numerosi attacchi
da parte dei rakhine buddisti verso i rohingya non hanno mai avuto alcun
biasimo, né da parte di Nay Pyi Taw né da parte dell’LND che, anzi, ha
rifiutato di sostenere la candidatura alla presidenza di un suo membro in
quanto musulmano. Suu Kyi ha sostenuto la necessità per il Paese di conservare
la cultura buddista, e questa presa di posizione ha giocato non poco nel
giustificare le violenze interreligiose.
La Lega Nazionale per la Democrazia ha vinto le elezioni,
ma ora il partito deve dimostrare di essere in grado di mantenere le pesanti
promesse fatte durante gli anni della dittatura e sarà questa la vera grande
sfida che Aung San Suu Kyi dovrà sostenere. Molti membri della Lega sono
giovani pieni di ambizioni e sono entrati nel partito più per interesse
personale che per il bene comune. Dal 2010 le fila dell’LND si sono ingrossate
a dismisura ed è impossibile controllare in modo capillare la dedizione e la
moralità di ogni membro. Sebbene la dirigenza del partito faccia di tutto per
coprire le magagne, gli scandali dovuti a corruzione e nepotismo si stanno
moltiplicando.
Da tempo, la nuova dirigenza dell’LND sta dando segni di
insofferenza nei confronti dei leader storici e le critiche verso Aung San Suu
Kyi, per il suo atteggiamento autocratico nel condurre il movimento e la
remissività nei confronti del governo e dei militari, si elevano sempre più
numerose.
Gli elettori si aspettano grandi cambiamenti sociali e
economici, ma cosa accadrà quando si renderanno conto che ai grandi propositi
non seguiranno, almeno a breve termine, i fatti?
Copyright © Piergiorgio Pescali
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