Non ho voluto scrivere nulla a proposito di Parigi fino ad
oggi. L’eco mediatico, i titoli dei giornali, i migliaia di commenti, le
bandiere tricolori comparse all’improvviso su Facebook, l’emotività sociale
scatenata da questi attentati annebbiano la lucidità d’analisi.
Come ogni avvenimento, anche questo, dopo lo tsunami di
commozione che ha suscitato, passerà negli archivi della memoria. E’ successo
con l’11 settembre, con Madrid, con Londra, con Utoya e succederà ancora. Le
candele si consumeranno e si spegneranno senza che nessuno si ricordi di
riaccenderle, i fiori appassiranno e verranno gettati nella spazzatura. Altre
candele verranno accese, altri fiori deposti, altre parole retoriche e inutili
verranno dette, ma in altri luoghi, in altri tempi che a noi non è dato ancora
sapere.
Non conoscevo nessuno di coloro che sono stati uccisi. Non
chiamerò nessuno di loro per nome, non considererò nessuno di loro eroe o
“futuro dell’Europa” perché, almeno per me, erano perfetti sconosciuti. Non è
cinismo. E’ umano. Al di là della cultura religiosa, tutti siamo fratelli
compassionevoli e caritatevoli sino a quando qualcuno disturberà e turberà la
nostra pace, il nostro angolo di mondo. Quando, però, ci sentiamo offesi,
derubati, disturbati, tutti, nessuno escluso, scateniamo la violenza naturale
che è in noi. E chiediamo, pretendiamo la guerra. Una guerra fatta non solo di
armi, ma anche di parole, di falso buonismo.
Pochi, tra quelli che hanno sfilato nelle città di mezzo
mondo, sarebbero scesi in piazza se le stesse stragi fossero state compiute in
altri Paesi. Non lo hanno fatto per i 43 morti di Beirut (il giorno prima di
Parigi), per i 100 e più morti ad Ankara in ottobre, per i 130 morti nella
moschea sciita di Zayidi, nello Yemen in marzo e per tutti gli altri. Non lo
faranno per gli altri morti che vi saranno fuori dai confini dell’Europa
occidentale.
Il Global Terrorism Index uno dei più affidabili e attenti
studi sul terrorismo, dell’Institute for Economics and Peace, ci dice che nel
2014 il 78% delle 32.658 vittime del terrorismo sono state uccise in soli
cinque paesi: Afghanistan, Iraq, Nigeria, Pakistan e Siria e di questi 9.929
solo in Iraq. Nessuno si è mosso per loro. Comprensibilmente. Nessuno si
interessa se muore un iracheno, un nigeriano, un afghano o un siriano. Sono
lontani; la loro lingua, cultura, religione non ci appartengono. Sono gli
“altri”, anzi, per molti sono loro stessi terroristi o, ben che vada, simpatizzanti.
Sono “poveri, bravi ragazzi” solo quando se ne stanno nelle loro rispettive
nazioni a subire le angherie e i bombardamenti. E nel caso, poi, le bombe cadono
da aerei occidentali, si trasformano in “danni collaterali” o “vittime
innocenti”, per poi convertirsi improvvisamente di nuovo in terroristi appena
varcano le nostre frontiere. Insomma, sono uomini e donne multitask, buoni per
ogni occasione.
Non voglio giudicare se sia giusto o meno entrare in guerra
con l’ISIS (mi chiedo, però, se uno stato può dichiarare guerra a un non-stato;
e in tal caso a chi si consegnerà la dichiarazione formale se non vi sono sedi
diplomatiche); non voglio giudicare se sia giusto o meno bombardare città e
villaggi sotto il controllo dell’ISIS. Mi chiedo solamente come mai, dopo aver
tanto criticato la Russia, ora sono tutti unanimi nel condividere le azioni di
guerra iniziate da Putin. Bastano davvero cento e poco più morti in Occidente
per cambiare la politica di due interi continenti? (Europa e Stati Uniti).
Mi chiedo, inoltre, come mai, dopo ben due anni dalla
nascita dell’ISIS, siano bastate meno di 24 ore per individuare esattamente
dove fossero i centri strategici, logistici, i campi di addestramento dell’ISIS
e colpirli più o meno chirurgicamente. Se davvero i governi dei Paesi
occidentali fossero stati preoccupati dell’espansione dello Stato Islamico,
perché aspettare così a lungo? Perché criticare Putin? Una vicenda che mi
ricorda la ridicola scusante del governo Clinton quando i suoi aerei bombardarono
l’ambasciata cinese a Belgrado. Per errore, naturalmente… non sia mai detto che
lo fecero intenzionalmente. “Non avevamo una mappa che indicasse la
dislocazione dell’ambasciata” fu la nota ufficiale di scusa. Sarebbe bastato
andare in un qualunque ufficio turistico jugolsavo o comprare una guida della
Lonely Planet...
Le radici dell’ISIS, così come quelle dei Taleban o di
al-Qaeda, non sono né superficiali né recenti: affondano nel terreno della
storia e degli errori compiuti dalla nostra stessa cultura e politica.
Purtroppo la storia non viene mai ricordata e così continuiamo a ripetere gli
stessi errori. Diabolicamente. E siamo noi stessi che creiamo, quindi, i nostri
diavoli, che diventano i diavoli anche degli altri. Sì, perché la lotta che si
sta consumando in questi anni non è tra islam e cristianesimo, ma tra un certo
islam moderato e un islam integralista; tra sunniti e sciiti.
E’ uno scontro culturale, ma anche economico e sociale. Da
una parte c’è un islam riconosciuto diplomaticamente dall’Occidente (ad esempio
i governi dell’Arabia Saudita o del Qatar), che tradisce gli ideali sociali
propri del Corano, che affama i propri popoli assoggettandosi acriticamente ai
principi economici del capitalismo, dall’altra c’è un islam che sa offrire agli
strati più emarginati della popolazione soluzioni alternative di sopravvivenza
economica.
Avevamo già un’opzione, anzi, più opzioni all’ISIS e ai
movimenti musulmani cresciuti dopo gli anni Novanta: erano i governi di linea
socialista presenti in Libia, in Siria, in Iraq, o anche quello teocratico
iraniano, oggi l’unico, assieme ad Assad, che riesce a contenere l’espansione
del nuovo islam. Ad uno ad uno li abbiamo colpevolmente abbattuti o, nel caso
dell’Iran, isolati. In nome della democrazia e di una primavera che, saltando
l’estate e l’autunno, ha portato direttamente i popoli di quelle nazioni
all’inverno. Abbiamo preferito appoggiare paesi come la Turchia (abbandonando a
se stessi i curdi), l’Arabia Saudita, il Qatar, a cui, tra l’altro, si sono
concessi anche i campionati mondiali di calcio del 2022, ed i cui governi hanno
favorito la nascita dell’ISIS per contrastare lo sciismo iraniano e i loro
alleati (Assad, Gheddafi). Ora ne paghiamo le conseguenze.
Il che sarebbe il meno. Purtroppo non sembra abbiamo
imparato la lezione. Non accettiamo le nostre responsabilità. La costituzione
tutela la libertà religiosa, ma chiediamo che non vengano costruite moschee,
vogliamo chiudere quelle (poche) già esistenti e pretendiamo che i sermoni
vengano declamati in italiano. Non capiamo che, così facendo, spingiamo
direttamente nelle braccia dell’integralismo anche quei musulmani (la
stragrande maggioranza) che sono moderati.
Combattiamo la guerra santa proclamando noi stessi una
guerra santa. Alla fine ci sarà una santissima guerra.
Copyright ©Piergiorgio Pescali
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