Nel 2012 il libro Fuga dal
Campo 14 di Blaine Harden, che raccontava la drammatica storia di Shin
Dong-hyuk, unico prigioniero riuscito a fuggire da un campo di rieducazione
della Corea del Nord, ebbe un’eco mondiale e fu portato a testimonianza da
numerose organizzazioni dei diritti umani sulle crudeltà commesse dal governo
di Pyongyang verso i dissidenti del regime. Anche la Commissione d’Inchiesta
sui Diritti Umani nella Repubblica Democratica Popolare di Corea, organismo
delle Nazioni Unite, pubblicando il suo famoso rapporto del 17 febbraio 2014
fece più volte riferimento alla storia di Shin Dong-hyuk nel trarre le sue
conclusioni sulla situazione dei diritti umani nel paese.[1]
Se sull’esistenza dei campi di prigionia in Nord Corea non vi è
alcun dubbio, molte perplessità rimangono su ciò che avviene nel loro interno. Queste
incertezze sono oggi rafforzate dalla confessione dello stesso Shin Dong-hyuk secondo
cui alcune affermazioni riportate nel libro sopracitato e nel documento della
stessa commissione ONU non sono reali, ma frutto della sua stessa fantasia.
Sia ben chiaro, l’efferatezza con cui Pyongyang tratta i propri
cittadini considerati controrivoluzionari o socialmente pericolosi, non viene
messa in discussione. Il polverone che l’ammissione di Shin ha sollevato, oltre
a gettare un’ombra di discredito sui racconti dei rifugiati nordcoreani
all’estero, è il modo con cui le notizie provenienti dalla Corea del Nord
vengono soppesate. Nonostante da più parti si fossero avanzati forti dubbi
sulla testimonianza e sulla veridicità dei fatti raccontati nel libro Fuga dal Campo 14, nessun giornalista e
nessuna organizzazione aveva messo in dubbio tali affermazioni, né ci si era
dati il compito di verificarne l’autenticità.
È un cliché pressoché assodato da quasi tutti i media
occidentali, quello di riportare notizie più o meno fantasiose sulla nazione
asiatica senza effettuare alcun riscontro. Di esempi se ne potrebbero fare a
decine, a partire dalla notizia, riportata recentemente su quasi tutti i
giornali e organi di stampa, della nazionale di calcio imprigionata
all’indomani della finale dei Giochi d’Asia persa contro i fratelli sudcoreani,
per continuare con l’imposizione alla popolazione maschile del taglio di
capelli alla Kim Jong Un o all’uccisione di Jang Song Thaek da parte di una
branco di cani affamati (i giornalisti più creativi hanno aggiunto che i mastini
appartenevano allo stesso Kim Jong Un che li avrebbe tenuti a digiuno proprio
per renderli più aggressivi).[2]
Di certo non aiuta il fatto che per interpretare le notizie
provenienti dalla Corea del Nord occorre una buona dose di esperienza e di
conoscenza del Paese, cosa che non si acquisisce stando seduti alle scrivanie davanti
ad un computer. Inoltre entrare nella nazione asiatica risulta ancora piuttosto
complicato, anche se giornalisti e fotografi possono ora visitarla con una
certa facilità.
Ma allora, come è veramente questa Corea del Nord, spesso
soprannominata «regno eremita»?
Ponendo da parte gli stereotipi di uno stato-prigione chiuso,
refrattario ad ogni cambiamento e retto da un leader descritto come un
giovincello incapace, sbruffoncello e tirannico, scopriremo una terra che,
dall’inizio del XXI secolo, è soggetta a drastici e veloci mutamenti sia
economici che sociali, oltreché politici.
A partire proprio da uno dei temi cui è spesso messa sotto
accusa: i diritti umani.
Da almeno tre lustri le maglie del governo verso chi contesta la
politica del Partito del Lavoro si sono allentate giungendo anche a
rivoluzionare le regole di confinamento. Le condanne, che prima erano
collettive, oggi colpiscono solo l’individuo permettendo alla propria famiglia
di continuare a vivere in libertà, seppur con alcune restrizioni (non sono
possibili trasferimenti in città, iscrizioni al Partito, lavorare in uffici
pubblici considerati di vitale importanza per il Paese). Le stesse condizioni
all’interno dei campi sembrerebbero essere migliorate, con una dieta alimentare
arricchita e una maggiore flessibilità da parte dell’amministrazione carceraria
nel considerare le esigenze umanitarie dei prigionieri.
La riforma penitenziaria è solo l’ultima delle azioni di
riorganizzazione economica e sociale avviate da Kim Jong Il, padre dell’attuale
leader Kim Jong Un, all’indomani della catastrofica crisi alimentare degli anni
Novanta che avrebbe mietuto centinaia di migliaia di vittime. Gli effetti di
tali cambiamenti si mostrano in tutta la loro incisività nelle città, Pyongyang
e Wonsan in particolare, ma si allargano, seppur in modo più attenuato, anche
nelle campagne.
La lenta, ma costante, penetrazione dell’economia di mercato ha,
almeno in parte, sollevato lo stato dal gravoso impegno di rifornire i negozi e
i propri cittadini di beni di prima necessità.
Il miglioramento della produzione agricola ottenuto grazie
all’ammodernamento del parco macchine, ad un costante rifornimento di pezzi di
ricambio e ad una riforma che tollera la vendita privata di prodotti, ha
eliminato la fame da quasi tutto il Paese, anche se Pyongyang continua a
sfornare dati di raccolti inferiori rispetto alla reale produttività. È un
espediente, questo, per sperare di ottenere maggiori aiuti da parte dei paesi donatori.
Sino a qualche anno fa avrebbe potuto anche funzionare, ma oggi,
con le riprese satellitari e un accesso più capillare nelle aree più remote del
Paese da parte delle organizzazioni internazionali, il controllo si è fatto più
preciso tanto che oggi in Corea del Nord si parla di malnutrizione, ma non più di
morte per inedia. Merito anche dei massicci aiuti (circa 800.000 tonnellate di
cibo ogni anno) provenienti principalmente da Corea del Sud, Cina e Stati
Uniti.[3]
Sebbene Kim Jong Un abbia incominciato a reintrodurre il sistema
di distribuzione alimentare controllato dallo stato, interrotto dal padre
all’inizio degli anni Novanta, solo il 40 per cento della popolazione ne può
usufruire; il resto si affida ad un «fai da te» che vede nei golmikjang, i mercati non ufficiali, ma
tollerati dal governo e presenti in ogni distretto, la punta di diamante di un
nuovo mercato emergente. Sulle bancarelle dei contadini un chilo di riso costa
tra i 4.000 e i 7.000 won. Un prezzo esorbitante se confrontato ai 44 won al
chilo fissato nei negozi dello stato, i cui scaffali, però, sono spesso
desolatamente vuoti.
Il costo diverrebbe addirittura proibitivo se si pensa che lo
stipendio medio di un nordcoreano è di 7.000 won al mese: 50 dollari al cambio
ufficiale che si riducono a soli due dollari al mercato nero.[4]
Come sopravvivono allora i nordcoreani? Semplicemente
ingegnandosi ad occupare quelle nicchie di mercato che lo stato non riesce a
soddisfare. Il commercio illegale con la Cina da parte di intraprendenti nordcoreani
che attraversano il confine importando merce di contrabbando, non solo non è
più represso, ma è persino tollerato perché da una parte permette alla
popolazione di trovare merce di prima necessità altrimenti impossibile da
reperire nei negozi statali e dall’altra accorda alle guardie di frontiera
lauti guadagni con le «mance» lasciate dai commercianti.
Nei golmikjang delle
cittadine di frontiera la moneta di scambio è ormai lo yuan (o il dollaro, a
volte lo yen), che ha soppiantato lo won: un paio di scarpe costa 250 yuan, un
paio di pantaloni 80, un soprabito 200 yuan.
Nelle città (ultimamente anche in alcuni villaggi di campagna) è
ormai comune vedere l’apertura di ristoranti, birrerie, caffè gestiti da
famiglie o da privati ed in cui un pasto costa tra i quattro ed i cinque
dollari. Quasi tutti gli ingredienti provengono dall’estero. I locali più
“eleganti” servono anche cibi e bevande giapponesi o sudcoreane (a Pyongyang è
stata recentemente aperta anche una pizzeria).
È la nuova economia che avanza e che permette ad una famiglia
media di aumentare anche di venti volte gli introiti. Il guadagno medio di un
nucleo famigliare nordcoreano è di centomila won al mese (una cameriera in uno
di quei ristorantini privati guadagna 40-50 dollari al mese) ma un negozio di
alimentari riesce a raggiungere anche i cinquecento dollari al mese.
Nuovi status symbol sorgono e, a testimonianza di come la
nazione stia mutando, oggi non vengono più nascosti, ma addirittura ostentati. Sebbene
sia impossibile comunicare con l’esterno, il numero di nordcoreani che compra
telefonini è in continuo aumento, così come in aumento sono le famiglie che
dispongono di frigoriferi, televisioni, radio. Lungo le strade delle principali
metropoli nordcoreane non è difficile osservare adulti e ragazzi giocherellare
con smartphone o farsi dei selfie. In
quattro anni in Corea del Nord sono stati venduti circa tre milioni di
cellulari, molti dei quali Apple o Windows (Nokia).
È tutta una classe di nuovi ricchi che sta prendendo piede nel
Paese. Questo drastico cambiamento sta rivoluzionando anche l’assetto sociale e
politico della Corea del Nord.
Il servizio militare, un tempo riservato all’élite e alle
famiglie più legate al Partito dei Lavoratori, oggi è visto come una palla al
piede perché allontana i nuovi rampolli per dieci anni dalla vita economica.
Così si cerca di evitare la coscrizione obbligatoria elargendo mance agli
ufficiali. Si spiega così la recente mossa del governo di includere anche le
donne nella ferma militare per sopperire alla fuga di matricole.
L’improvvisa disponibilità di denaro liquido che molti si sono
trovati a gestire, ha innescato la corsa agli investimenti immobiliari. In
Corea del Nord la proprietà privata è tuttora proibita, ma ogni famiglia ha
diritto ad un appartamento. Come fare, allora, per poter investire nel mattone?
Semplice, le famiglie più abbienti ricorrono ad un espediente del tutto legale:
lo scambio di appartamenti. La legge non impedisce agli inquilini consenzienti
di mutuare le abitazioni concesse loro dallo stato; accade così che chi ha
denaro liquido “acquisti” il baratto andando ad abitare in appartamenti
centrali abitati da famiglie che accettano di cambiare locazione in posizioni
meno vantaggiose. La permuta di un locale di circa cento metri quadrati in un
quartiere centrale di Pyongyang costa circa 150.000 dollari che salgono a 200.000
se l’appartamento si trova nei piani inferiori (spesso gli ascensori non
funzionano per mancanza di energia elettrica o perché guasti, quindi i piani
alti sono i meno ambìti). Attorno a questo commercio si sono create delle
agenzie che mutuano le trattative tra gli inquilini.
Ma non è solo la società a trasformarsi: anche il regime,
considerato a torto monolitico e inamovibile, in questi anni ha subito e
continua a subire scossoni. I repentini cambi di cariche, di ministri,
l’esecuzione di importanti personalità della nomenklatura e, soprattutto, i
movimenti all’interno della famiglia Kim, denotano che la leadership del Paese
si sta preparando a un prossimo cambio di direzione politica. Kim Jong Un è,
alla fin fine, un leader che si è dimostrato accorto e capace di governare una
nazione contro tutte le aspettative che lo vedevano troppo giovane e inesperto.
Due qualità (specialmente la prima) considerate fatali in una società di stampo
confuciano come quella nordcoreana, dove la saggezza ed il rispetto vanno di
pari passo con l’età anagrafica.
Sicuramente hanno giocato un ruolo fondamentale gli anni della
sua carriera scolastica passati a Berna, che hanno permesso al leader
nordcoreano di comprendere i meccanismi delle democrazie occidentali, entrare
in contatto con le loro società e, soprattutto, “assaggiare” un altro tipo di
mercato economico.
Forse è stata proprio questa sua formazione atipica (ma non
unica; sono sempre più i nordcoreani che vengono inviati all’estero per
imparare i disegni economici mondiali), a determinare un deciso voltafaccia
verso la Cina a favore del nemico storico: la Corea del Sud.
L’esecuzione di Jang Song Thaek avvenuta nel 2013 e i cambiamenti
ancora in atto nell’apparato del Partito sembra siano dovuti proprio
all’intenzione di Kim Jong Un di sganciarsi dall’orbita cinese, la cui forza
gravitazionale era rappresentata dallo zio.
Tra il 2010 ed il 2012, anni in cui Jang Song Thaek era vice della
potentissima Commissione Nazionale di Difesa, la dipendenza nordcoreana dalla
Cina salì dal 57% al 70% del commercio totale di Pyongyang.
Nel 2014, l’anno seguente l’eliminazione di Jang Song Thaek, il
commercio tra i due paesi ha visto la prima flessione dal 2009.
Viceversa le transazioni con la Corea del Sud sono in aumento,
sebbene abbiano subito notevoli variazioni a causa delle tensioni geopolitiche.
Sono più di cento le aziende di Seoul che operano a nord del 38° parallelo.
Molte sono insediate nella Zona ad Economia Speciale di Kaesong, lungo la linea
d’armistizio del 1953, in cui sono occupati 53.000 lavoratori nordcoreani.
L’alto livello di professionalità delle maestranze, la mancanza di
rivendicazioni sindacali, i bassi salari (lo stipendio medio è di 150 dollari
al mese) e, non ultimo, la facilità di comunicazione linguistica, sono
incentivi sufficienti a convincere le aziende sudcoreane a investire a Kaesong.
Il rilassamento delle relazioni tra Pyongyang e Seoul lo si
respira anche nelle case dei nordcoreani e nei golmikjang. I DVD delle soap opera sudcoreane vanno letteralmente a
ruba e le autorità del Nord, sapendo che praticamente ogni casa possiede una
radio ad onde corte con cui captare le trasmissioni provenienti dall’estero,
non si preoccupano neppure più di trasmettere l’antiquata e retorica propaganda
contro i fratelli del sud.
La volontà di Pyongyang di comprendere e ingranare il
funzionamento del mercato capitalista si è resa evidente sin dal 2004, quando
lo svizzero Felix Abt ha fondato la Pyongyang Business School, un istituto che
ha formato funzionari ministeriali e manager nordcoreani nella prospettiva di
un’apertura del Paese verso l’esterno. È stato questo uomo d’affari che, per
primo, aveva posto dei dubbi sul racconto di Shin Dong-hyuk. Nessuno, allora,
lo aveva ascoltato.
Copyright ©Piergiorgio Pescali
[1] UN Commission of Inquiry on Human Rights in
the DPRK, A/HRC/25/CRP.1, 17 febbraio 2014, pp. 223, 229
[2] Per una lista, seppur non
esaustiva, delle false notizie sulla Corea del Nord apparse su testate e
televisioni nazionali, vedi il sito http://www.pescali.blogspot.it/search/label/Disinformazione
[3] Il principale donatore di
aiuti alimentari della Corea del Nord è la Corea del Sud, che tra il 1995 e il
2011 ha inviato 5 milioni di tonnellate di cibo, seguita dalla Cina (3 milioni
di tonnellate) e Stati Uniti (2,4 milioni ti tonnellate). Fonte FAO
[4] Il cambio ufficiale è di
139 won per 1 dollaro USA. Al mercato nero il cambio sale a 3.000-3.5000 won
per dollaro USA.
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