Nel 333 un
pellegrino proveniente da Bordeaux, visitando Gerusalemme scrisse sul suo diario:
«Basilica iussu Constantini facta est».
E’ questo il più antico documento relativo alla basilica del Santo Sepolcro
sino ad oggi rinvenuto. Due anni più tardi, nel 335, la chiesa venne
consacrata. La mappa di Madaba, un mosaico risalente al 560 d.C. e riprodotto
nel Cardo di Gerusalemme, ci propone la basilica così come avrebbe dovuto
vederla il pellegrino di Bordeaux: l’entrata a scalinata con una facciata a tre
arcate, ricoperta da un tetto a capanna dal soffitto laminato in oro. Da allora
numerosi interventi hanno stravolto la pianta del luogo sacro, ma la comunità
cristiana della città santa ha continuato a perpetuare la memoria di quello
che, si pensa, sia il luogo della Passione di Gesù. Già, perché, come afferma
padre Eugenio Alliata, archeologo francescano e direttore del museo della
Flagellazione di Gerusalemme, «non c’è
assoluta certezza che la tomba sia quella in cui venne deposto il corpo di Gesù
dopo la crocifissione, ma identificandoci con la tradizione comunitaria che
risale al IV secolo d.C., abbiamo continuato a riconoscerla come tale». Da
allora, la basilica, la cui costruzione fu approvata da Costantino, è divenuta
meta di incessanti pellegrinaggi. Oggi della chiesa d’epoca costantiniana non
rimane quasi nulla, essendo stata distrutta nel 1009 dal califfo Hakim bi-Amr
Allah, che pur aveva madre e sorella cristiane. L’edificio che oggi possiamo
ammirare dall’esterno, risale al 1041, quando Michele IV il Paflagone inglobò
in un unico stabile la tomba, il Calvario e il luogo del ritrovamento della
Santa Croce. L’interno, invece, ristrutturato a più riprese da francescani e
dai greci ortodossi, è ancora più recente: l’edicola, la struttura che ingloba
la tomba di Cristo all’interno dell’anastasis, è stata ricostruita nel 1555,
mentre l’attuale rotonda, che sovrasta l’edicola, è opera dell’architetto greco
Nikolaos Komnenos, che compì i lavori di restauro tra il 1809 e il 1810.
Ciò che
impressiona maggiormente chi visita la basilica (e Gerusalemme) è la compressione
degli spazi: i Vangeli ci hanno portato a identificare un itinerario della
Passione allungato, che nella realtà si restringe in poche centinaia di metri
(dalla chiesa della Flagellazione al Santo Sepolcro, la via Dolorosa è lunga
500 metri). Ancor più sorprendente è l’altezza del monte Calvario, che dal
basamento della basilica si innalza di soli 5 metri.
I
pellegrini, i turisti, o semplici curiosi si alternano nel percorrere i luoghi
dove Gesù ha spirato i suoi ultimi respiri da uomo per poi risalire nel Cielo.
Di solito non si segue un percorso cronologico, ma appena varcata la soglia
della basilica ci si dirige immediatamente sulla pietra dell’unzione (in realtà
una copia), dove il corpo di Gesù fu deposto e lavato dopo essere stato deposto
dalla croce. I fedeli si accalcano per baciare la lastra e per “ungere” di
sacralità oggetti più disparati: sciarpe, rosari, statuine sacre, fazzoletti… A
volte la folla è talmente numerosa che sorgono battibecchi e litigi.
Salendo
pochi scalini si giunge nella cappella del Calvario, in cui si erge la vetta
della roccia dove venne piantata la
croce. Nella lastra di plexigas che protegge lo sperone, è stato
praticato un foro per permettere ai pellegrini di toccare la pietra.
Nella
fretta dei tour guidati, pochi sono coloro che scendono le scale sino a
raggiungere la cappella di Sant’Elena ed osservare, scolpite nelle pietre, le
innumerevoli croci di epoca crociata.
Da qui si
giunge alla stanza del ritrovamento della Santa Croce, incassata nella pura
roccia sotto il livello del terreno. Fu Elena, la madre di Costantino che,
secondo racconti postumi di quasi un secolo, ritrovò la reliquia. «Il vescovo di Gerusalemme, Cirillo, a cui si
deve il documento che relaziona la scoperta della Santa Croce, non sembra dare
eccessiva importanza al ritrovamento, non descrive la croce, non la presenta»
afferma padre Alliata. Un fatto singolare, visto che la croce è il simbolo del
cristianesimo e, come tale, un suo ritrovamento dovrebbe aver suscitato
scalpore.
La totalità
dei pellegrini, invece, si dirige nell’anastasis, il cuore della basilica. Qui,
stretta in una gabbia di ferro che ne ha impedito il crollo dopo un terremoto,
sorge l’edicola, che protegge a sua volta il sepolcro di Gesù. La fila di
fedeli è continua ed inizia già alle 4 del mattino, quando le porte della
chiesa vengono aperte secondo un rituale ben preciso che esclude l’appropriazione
della chiave ad una sola delle chiese cristiane che si dividono gli spazi del
Santo Sepolcro. Sì, perché in questo luogo, simbolo della cristianità,
convergono anche le divisioni delle fedi che vedono nella passione e nella
resurrezione di Cristo, il punto centrale della loro dottrina.
I fedeli
non se ne accorgono, ma tutto ciò che rotea attorno al Santo Sepolcro è
immutabile, separato ed al tempo stesso fissato da un rigidissimo decreto,
chiamato Status quo, redatto nel 1852
dal sultano ottomano per porre fine alle frequenti risse tra le varie comunità
che amministravano il luogo. Sicché armeni, greco ortodossi, latini cattolici,
siriaci e copti hanno propri spazi che gestiscono autonomamente, ma dove nulla
può essere cambiato senza l’approvazione delle altre confessioni. L’esempio più
eclatante è la scala a pioli che, da un secolo, è poggiata sul frontale
superiore della basilica: dimenticata inavvertitamente dopo alcuni lavori di
restauro, non si è ancora deciso da chi, come e quando debba essere rimossa.
Le
incomprensioni tra le chiese, specialmente tra latini e greci ortodossi, si
osservano chiaramente: i rappresentanti delle singole fedi all’interno della
basilica, raramente si parlano e, ancor più difficilmente, si salutano. Spesso
i fedeli restano sbigottiti e sconcertati dalla rudezza con cui vengono
trattati dai preti greci ortodossi, a cui è demandato il controllo delle visite
all’interno dell’edicola, mente i rapporti tra latini e armeni, sono
decisamente più cordiali e distesi.
«Bisogna, però, evitare le semplificazioni» afferma
padre Pierbattista Pizzaballa, Custode di Terrasanta per la Chiesa Latina; «Tutto in Terrasanta procede a doppio
binario: quello istituzionale e quello privato. Anche nei momenti di crisi, è
sempre possibile il dialogo e questo esiste sempre, anche con chi,
dall’esterno, sembra sordo ad ogni richiamo.»
La
litigiosità esistente tra le comunità, resta comunque alta: le vergognose
immagini delle risse tra armeni e greco ortodossi, non onorano né le due
Chiese, ma neppure la religione cristiana e gettano una sorta di discredito
anche a quelle fedi che cercano di estraniarsi da queste colluttazioni. E’
sempre padre Pizzaballa che spiega il rapporto di amore-odio che tiene vivo il
dialogo con la chiesa greco ortodossa: «La
storia che contraddistingue i rapporti tra noi e i greci ortodossi è unica:
abbiamo sempre dovuto rivaleggiare per la custodia dei luoghi santi, ma al
tempo stesso abbiamo dovuto cercare un’intesa comune che ci permettesse di
difenderci dalla realtà circostante.»
Durante il periodo
pasquale, le processioni incessanti e continue esacerbano le tensioni: il
comitato dello Status quo programma attentamente e minuziosamente ogni singolo
evento per dare spazio alle comunità armena, latina e greco ortodossa, di poter
espletare i propri rituali senza intralciarsi a vicenda. Ogni ritardo, ogni
prolungamento seppur minimo, è una scintilla che può provocare l’esplosione
degli animi, già provati da settimane di preparativi e di discussioni.
Anche effettuare riprese
fotografiche all’interno degli spazi sacri può sollevare problemi. Pur avendo
l’approvazione della Custodia di Terrasanta per fotografare gli interni della
basilica usando il cavalletto, diverse volte sono stato avvicinato da preti
greco ortodossi o addirittura dagli stessi frati francescani preoccupati più
per l’invasione delle loro proprietà che per la manutenzione artistica dei beni
del Santo Sepolcro. Paradossalmente nulla e nessuno, infatti, vieta l’uso dei
flash, i cui lampi di luce concentrata hanno effetti deleteri sui beni
artistici.
In questi ultimi anni,
infine, la crisi economica che ha colpito in particolar modo la Grecia, ha
messo il patriarcato di Gerusalemme in condizioni finanziarie precarie, dando
modo alla chiesa ortodossa russa di fare pressioni per subentrare in alcune
attività in Terrasanta. Nonostante le difficoltà, le richieste russe sono, per
ora, state respinte, ma Mosca continua seguire da vicino le travagliate vicende
della chiesa greco ortodossa di Gerusalemme. Il patriarca Teofilo III, infatti,
dopo essere stato eletto nel 2005, si è trovato a far fronte ad una situazione
finanziaria sull’orlo del baratro, dopo che il suo predecessore, Ireneo I,
aveva venduto molte proprietà a uomini d’affari israeliani. La traversia ha
avuto anche dei risvolti politici, visto che lo stato d’Israele, cui spetta
assieme alla Giordania e all’Autorità Palestinese il diritto di accettare o rifiutare
il nuovo patriarca, continua a riconoscere Ireneo I come legittimo successore
di Giacomo il Giusto. A complicare ulteriormente la vicenda, parte del
patriarcato ortodosso di Gerusalemme continua a ritenere in carica Ireneo I,
dando così vita ad un vero e proprio sdoppiamento di identità. Tutta questa
incertezza si ripercuote anche nei rapporti con le altre confessioni religiose,
anche se, da più parti, si è evidenziata una maggiore propensione e
disponibilità al dialogo da parte di Teofilo III.
Sarà proprio Teofilo III
che, come tradizione, a mezzogiorno del il Sabato Santo entrerà nel sepolcro,
ermeticamente sigillato dal mattino per evitare la presenza di qualsiasi
oggetto che possa innescare scintille, e accoglierà il cosiddetto Fuoco Santo,
testimonianza della resurrezione di Cristo. E’ la cerimonia più importante
della fede ortodossa, secondo cui il Signore stesso, nel giorno della sua
salita al Cielo, invia la fiamma, simbolo di vita eterna, che accende la
candela del patriarca. Il fuoco di quella prima fiammella celeste verrà poi
utilizzato per accendere altre candele, le quali, a loro volta, illumineranno
le strade di tutta Gerusalemme. E, per una volta, tutti, musulmani, ebrei,
cattolici, ortodossi, armeni, dimenticheranno le dispute per ammirare le pietre
della città santa illuminarsi di sacralità.
Copyright ©Piergiorgio Pescali
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