Aung San Suu Kyi si
appresta a visitare l’Italia. E’ un evento che, al di là della caratura del
personaggio, premio Nobel per la pace 1991, indica quanto il Myanmar si sia
saldamente avviato verso riforme politiche e sociali che, appena tre anni fa,
sembravano impensabili da raggiungere. Il plauso delle democrazie occidentali,
Stati Uniti in testa, si è tramutato in aperta collaborazione economica, tanto
che le sanzioni europee e statunitensi in vigore dagli anni Novanta, oggi sono
sospese, se non addirittura eliminate. L’improvvisa ventata di democrazia ha
trovato, paradossalmente, una classe politica più preparata di quanto lo sia la
popolazione. Dei duemila prigionieri politici denunciati dalle organizzazioni
dei diritti umani nel 2010, oggi ne rimangono in carcere meno di 100.
Personaggi di punta dell’opposizione, come Ko Ko Gyi e Zarganar, sono stati
liberati e, a differenza di quanto accadeva nel passato regime, chiamati a
partecipare al processo di democratizzazione. La stessa Aung San Suu Kyi è
attiva protagonista della vita politica e parlamentare della Camera Bassa. I
media non sono più censurati ed il famigerato Odine 2/88, che vietava a più di
quattro persone di riunirsi pubblicamente, cancellato.
Mentre le trasformazioni
politiche procedono a ritmo serrato, quelle economiche e sociali, ostacolate le
prime da una goffa burocrazia e le seconde da un mosaico etnico i cui tasselli
difficilmente si riescono ad incastrare, non
riescono a stare al passo con la liberalizzazione. Il risultato è che
oggi il paese è scosso da una serie di fermenti sociali senza precedenti
dimostrando ciò che molti avevano paventato da tempo: l’improvvisa
liberalizzazione della società, rischia di stravolgere l’intero sistema,
portando il paese verso una pericolosa spirale di caos.
Ne sono un esempio le
manifestazioni popolari in atto a Monywa, dove sorge una delle miniere di rame
più grandi al mondo ed in cui i lavoratori, da decenni, sono sfruttati in modo
disumano. Gli abitanti della zona, insorti per contrastare l’ampliamento delle
miniere, hanno subito una brutale e sanguinosa repressione da parte della
polizia. E le fragili tregue con le minoranze etniche, in particolare con i
Kachin, il cui accordo è stato firmato poche settimane fa, sono più frutto di
risvolti economici che di effettiva volontà di pace. Il gasdotto appena
inaugurato, che ogni anno porterà in Cina 12 miliardi di metri cubi di gas
naturale, le innumerevoli miniere di giada e rubini e le foreste di tek non
potrebbero essere sfruttati appieno se sul territorio perdurasse lo stato di
guerra.
Più drammatica è la
questione degli 800.000 Rohingya islamici che vivono al confine con il
Bangladesh. Non riconosciuti dal governo centrale, che si ostina a considerarli
Bengalesi, e discriminati dalla maggioranza Rakhine di religione buddista, i
Rohingya vivono in uno stato di assedio permanente. Il terrore di pogrom ha
indotto migliaia di loro a cercare rifugio in Bangladesh, Tailandia, Malesia,
Indonesia venendo regolarmente respinti o, nel migliore dei casi, internati in
campi temporanei. Di fronte a questa escalation Aung San Suu Kyi ha dato prova
di poca sagacia giustificando il suo rifiuto nel condannare le violenze
perpetrate dai buddisti col fatto che i Rohingya non sono rappresentati in
parlamento. Le critiche, per questa improbabile scusante, sono piovute non solo
dall’interno del paese, ma anche dall’esterno, facendo infuriare la Lady , per troppo tempo abituata
a ricevere solo elogi e, quindi, poco avvezza ai giudizi negativi. Neppure la
decisa condanna di Tomàs Ojea Quintana, rappresentante speciale dell’ONU per i
Diritti Umani, e di organismi come Medici Senza Frontiere, hanno indotto Suu
Kyi a fare marcia indietro. Nel 2013 le violenze etnico-religiose sono dilagate
in altre parti del paese inducendo gli elementi più estremisti buddisti a
fondare organizzazioni xenofobe e intolleranti come il Movimento 969, promosso
da monaci influenti come Wirathu e Wimala. Rispecchiando la tradizione di
superstizione che permea ogni atto sociale e politico della vita birmana, 969
rappresenta, nella numerologia astronomica, gli speciali attributi del Buddha
ed i suoi insegnamenti. I leaders del movimento chiedono il boicottaggio delle
attività commerciali ed il divieto dei matrimoni misti, ipotizzando un
fantomatico complotto jihadista per convertire il paese e prendere il potere.
Il conflitto ha già
valicato i confini nazionali, inducendo molti stati islamici, tra cui il turbolento
Pakistan, a chiedere a Thein Sein di impegnarsi a proteggere la comunità
islamica che, raggiungendo il 4% della popolazione, è il secondo gruppo
religioso del Myanmar.
Nel suo tour europeo,
Aung San Suu Kyi ha cercato sempre di glissare sulla questione Rohingya: il tema
ricorrente dei suoi discorsi è stato la riforma costituzionale. Presentata
giustamente come proposta per democratizzare il paese (secondo l’attuale
sistema il 25% dei seggi parlamentari è riservato ai militari), in realtà gli
emendamenti chiesti dalla leader dell’opposizione hanno un obiettivo più personale.
La costituzione del 2008 (così come quella democratica del 1947 a cui spesso la
stessa Suu Kyi si riferisce come esempio da seguire) vieta a cittadini birmani
che hanno parenti con passaporto straniero di occupare cariche presidenziali.
Con le elezioni del 2015 che si stanno avvicinando, Aung San Suu Kyi, i cui due
figli hanno cittadinanza britannica, rischierebbe di restare esclusa dalla
candidatura alla più alta carica del paese.
Il che,
nonostante tutti i limiti politici che presenta la Lady, sarebbe un danno per
lo stesso Myanmar.
Copyright ©Piergiorgio Pescali
Nessun commento:
Posta un commento