Il Myanmar si è ormai
saldamente avviato verso riforme politiche e sociali che, appena due anni fa,
sembravano impensabili da raggiungere. Il plauso delle democrazie occidentali,
Stati Uniti in testa, si è tramutato in aperta collaborazione economica, tanto
che le sanzioni europee e statunitensi, in vigore dagli anni Novanta, oggi sono
sospese, se non addirittura eliminate. Nay Pyi Taw, la capitale del paese, è
ormai regolarmente visitata da capi di stato delle nazioni dei cinque
continenti e la recente visita di Obama ha sdoganato, forse definitivamente, il
Myanmar dalla lista nera del Dipartimento di Stato.
Mentre le trasformazioni
politiche procedono a ritmo serrato, quelle economiche, ostacolate da una goffa
burocrazia, non riescono a stare al
passo, con il risultato che il paese oggi è scosso da una serie di fermenti
sociali senza precedenti. L’improvvisa ventata di democrazia ha trovato,
paradossalmente, una classe politica più preparata di quanto lo sia la
popolazione. Dei duemila prigionieri politici denunciati dalle organizzazioni
dei diritti umani nel 2010, oggi ne rimangono in carcere 217. Personaggi di
punta dell’opposizione, come Ko Ko Gyi e Zarganar, sono stati liberati e, a
differenza di quanto accadeva nel passato regime, chiamati a partecipare al
processo di democratizzazione. Aung San Suu Kyi, dopo aver partecipato alle
elezioni suppletive dello scorso aprile, è oggi parlamentare della Camera
Bassa.
Ma i recenti sviluppi
sociali avvenuti in Myanmar, hanno anche dimostrato ciò che molti avevano
paventato da tempo: l’improvvisa liberalizzazione della società, rischia di
stravolgere l’intero sistema, portando il paese ad una pericolosa spirale di
caos.
Ne sono un esempio le
manifestazioni popolari in atto a Monywa, dove sorge una delle miniere di rame
più grandi al mondo ed in cui i lavoratori, da decenni, sono sfruttati in modo
disumano. Eppure non è stato questo indiscriminato abuso della manodopera ad
aver fatto balzare alla cronaca nazionale e internazionale il “caso Monywa”,
quanto lo spostamento di 26 villaggi per permettere al management
birmano-cinese, un ampliamento degli scavi. Gli abitanti della zona sono
insorti, appoggiati da associazioni politiche, tra cui Generazione 88, il
glorioso movimento studentesco che nel 1988 aveva dato inizio a contestazioni
popolari sfociate in una brutale e sanguinosa repressione. Nonostante ciò che
accade a Monywa ricalca molto da vicino quello capitato nel 2011 per la diga di
Myitsone, la gestione della vicenda è stata del tutto differente. Nel caso di
Myitsone fu lo stesso presidente birmano, Thein Sein ad annullare il progetto,
suscitando le proteste della Cina, principale attore interessato nella
costruzione della diga, ed incassando gli elogi dell’intera comunità
democratica del Myanmar. Questa volta, invece, la risposta delle autorità
locali è stata diametralmente opposta, con la polizia che ha attaccato e
picchiato selvaggiamente i dimostranti. Il governo centrale, che sembra non
abbia approvato la conduzione del caso da parte dei dirigenti di Monywa, ha
incaricato una commissione d’inchiesta guidata da Aung San Suu Kyi, di indagare
sulle responsabilità. E’ stato, questo il primo esame politico sul campo della
leader democratica; esame che ha suscitato molte perplessità. La commissione
d’inchiesta presieduta dalla leader democratica, è stata immediatamente
rimaneggiata, escludendo gli elementi più radicali o critici verso la Lega
Nazionale per la Democrazia. La stessa Suu Kyi, arrivata a Monywa, ha stupito
tutti affermando che, pur capendo le ragioni dei dimostranti, doveva però
prevalere il bisogno di rispettare gli impegni già presi a livello
internazionale, per salvare l’onore della nazione.
Più drammatica è la
questione degli 800.000 Rohingya islamici che vivono al confine con il Bangladesh e discriminati
dalla maggioranza Rakhine, di religione buddista, e quindi guardata con favore
da Nay Pyi Taw. Pur avendo le carte in regola per divenire cittadini del
Myanmar, tutti i governi succedutisi alla guida del paese dal 1948 ad oggi, non
hanno mai voluto concedere ai Rohingya il diritto di cittadinanza. La
democratizzazione in atto ha, però, permesso maggiori spazi di manovra anche
alle minoranze etniche, le quali hanno reagito organizzandosi per far valere i
propri diritti. In questo modo anche episodi marginali, rischiano di far
scoppiare un conflitto. Così il deplorevole stupro da parte di tre islamici ai
danni di una ragazza buddista, è stata la miccia che ha fatto esplodere le
violenze nella regione. La risposta dei Rakhine è stata immediata e brutale:
centinaia di Rohingya uccisi ed altre migliaia sfrattati dalle loro case date
poi alle fiamme. Anche di fronte a questa escalation di conflitto, Aung San Suu
Kyi ha dato prova di poca sagacia, giustificando la sua assenza nel condannare
le violenze perpetrate dai buddisti dal fatto che i Rohingya non sono
rappresentati in parlamento. Le critiche, per questa improbabile
giustificazione, sono piovute non solo all’interno nel paese, ma anche all’esterno,
facendo infuriare la Lady, abituata a ricevere solo elogi e, quindi, poco
avvezza ai giudizi negativi.
Forse è ora che anche
Aung San Suu Kyi prenda lezioni di democrazia.
Copyirght ©Piergiorgio Pescali
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